A veder la copertina non attira per niente questo album della Welch. Seduta di traverso su un divano da quattro soldi, lo sguardo se ne va da un’altra parte e il vestito a fiori sembra un insulto, voluto e volontario, a chi insiste ancora sull’importanza del look, dell’apparire, del mostrarsi. Nessuna concessione, neanche uno sfondo a nascondere quella che sembra la parete di una baita dietro di lei. Dentro, è lo stesso: i suoni sono rarefatti, acustici e legati alla sonorità della chitarra e del banjo, oltre alla voce di Gillian Welch, che però è un capitolo a parte. Una struttura scheletrica, minimale, scarnissima. Poco importa: in Time (The Revelator) scorrono bluegrass, old time, ballate, canzoni che sembrano leggere leggere nella strumentazione, ma evocano paesaggi gotici. Dieci canzoni e la musica è quella: prendere o lasciare. Spiccano, sopra le altre, Revelator, My First Lover, Elvis Presley Blues (che è uno dei più bei omaggi all’onnipresente fantasma e mito americano) e I Dream A Hitghay, sogno in po’ particolare che però chiude in maniera eloquente questo disco.

La Welch è senza dubbio il “parallelo” più credibile a Lucinda Williams, c’è una differenza di elettricità ma, personalità, voce, coraggio, coerenza sono gli stessi: Gillian Welch riduce al minimo la distanza tra canzone d’autore e canzone popolare nel senso che la sua interpretazione è tanto rispettosa e competente degli schemi, musicali e non solo, della folk song, quanto personalissima nella pratica.

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