Presentazione


Bere è una delle necessità essenziali e insopprimibili dell’uomo: si può restare anche più giorni senza cibo, ma non privandosi completamente di bevande. Da ciò, come sempre accade per i momenti fondamentali della vita, la formazione, nel tempo, di quella che si potrebbe definire la «liturgia del bere», che si esprime sia con la scelta delle bevande sia nelle modalità di consumo, individuali e collettive: una serie di norme, più semplici di quelle relative al cibo, ma ugualmente osservate con attenzione e rispetto per certi comportamenti tradizionali, spesso convalidati dalle leggi religiose. La bevanda fondamentale, l’unica in grado di dissetare veramente, è, da sempre, l’acqua. E’ infatti essenziale per le nostre necessità fisiologiche e, se talvolta non viene bevuta allo stato puro, come è consigliabile, la sua percentuale nel vino, nella birra, nella frutta eccetera, è tale da compensare il mancato consumo diretto.
Per il vino, comunque, si può parlare di tradizioni e norme di comportamento che vanno ben oltre il consumo a scopo alimentare o il desiderio di annullare, per breve tempo, le sensazioni e i pensieri sgradevoli, ricorrendo all’alcol (il “bere per dimenticare”). Già presente nella Bibbia come elemento di contatti umani, il vino diviene, con il cristianesimo, simbolo e transustanziazione della divinità, che lo accoglie trionfalmente nell’Eucaristia. Per contro, le altre due maggiori religioni, la musulmana e l’indù, lo mettono al bando, assieme a tutte le altre bevande contenenti alcol.
Lo scopo di questo “Corso…” è quello di far conoscere il vino per poterlo apprezzare pienamente al momento del consumo. Farlo conoscere a fondo in tutti i suoi aspetti, a cominciare dal frutto da cui deriva, ecco perché all’inizio — dopo un indispensabile cenno storico — si prende subito in considerazione l’uva con le sue numerose varietà, cioè i vitigni. La produzione del vino, infatti, incomincia con la coltivazione della vite, nelle sue varie fasi che culminano nella vendemmia.
Le operazioni successive alla raccolta dell’uva, che riguardano la vera e propria lavorazione e produzione del vino, costituiscono anch’esse un argomento trattato nel “Corso…”, che contribuisce a rendere l’informazione il più completa possibile.
Un capitolo a cui si dedicherà un’attenzione particolare é quello riguardante la cantina di casa, quella che ogni appassionato di vini sogna di potersi allestire: il lettore troverà tutte le informazioni pratiche al riguardo, dalle costruzione della cantina ideale alla disposizione dall’interno (scaffalature e attrezzature varie), dall’imbottigliamento casalingo ai consigli per conservare il vino, e via di seguito.
Non potrà mancare poi una guida pratica all’acquisto del vino, fase delicata che richiede oculatezza e una certa conoscenza delle norme legislative di base che regolano la produzione e il commercio vinicolo: in tal modo l’appassionato “Astemio” non correrà il rischio di scelte sbagliate e non sarà bersaglio di qualche rivenditore non troppo onesto…
Molte altre notizie utili costituiscono poi oggetto di successivi capitoli, come quelli che prendono in esame i vari tipi di bottiglie e di bicchieri, la degustazione, il modo di servire il vino.
Il servizio dei vini, al ristorante o in famiglia, é un test per valutare il grado di cultura enogastronomica sia delsommeliersia del padrone di casa.
Vi sono regole di selezione e di comportamento cui ci si affida quasi alla cieca e che, per sfortuna di quanti debbono conoscerle e applicarle, sono tutt’altro che immutabili. Le più rispettate e prese sul serio, oggi, sono quelle dei cosiddetti abbinamenti, di cui si parla ampiamente nel “Corso…”. Derivano da una sorta di «progressiva», parzialmente enunciata da Brillat-Savarin, nella suaFisiologia del gusto, e impongono di cominciare vini più giovani, freschi e meno alcolici (generalmente bianchi) per passare poi ai rossi di annata, più robusti e ricchi di stoffa e di aromi (per comprendere questo linguaggio «da iniziati» sarà di aiuto al lettore il lessico inserito nel “Corso…”).
Questa «scala» non consente marce indietro: una volta passati dai bianchi ai rossi, un ritorno ai primi é considerato blasfemo. Sono regole, ripeto, recenti (all’inizio del nostro secolo era corretto servire champagne, esclusivamentedoux o demi-sece quindi prevalentemente dolce, anche con ilroast beefe i grandi arrosti). Tali norme possono variare (i maitres francesi hanno ‘scoperto’ i vini rossi leggeri per accompagnare le ostriche) con il mutare dei gusti, ma in linea di massima bisogna rispettarle.
Quando si attendono ospiti, spetta al padrone di casa predisporre in anticipo la scelta dei vini idonei ad accompagnare la lista delle vivande. Tale scelta può essere agevolata quando si segua una norma considerata fondamentale: i piatti regionali si abbinano, di solito, con i vini della stessa zona. Norma facile da seguire quando si tratta di regioni essenzialmente vinicole (Piemonte, Veneto. Trentino, Puglia, Sicilia), ma che può proporre quesiti interessanti anche per le zone meno ricche sotto il profilo enologico: certe ricette napoletane di spaghetti trovano il loro vino giusto nell’Asprino, raro ma non introvabile vinello leggero e ‘divertente”.
A proposito di gastronomia, non poteva mancare nel “Corso…” una nutrita esemplificazione di ricette in cui il vino entra come componente vera e propria; infine, qualche nota dietetica esamina il vino anche da un punto di vista medico.
Per agevolare l’appassionato enologo “corsista” nella scelta e nella ricerca viene data inoltre un’ampia panoramica dei principali vini prodotti nel mondo: ci si può così orientare non solo fra i vini italiani e francesi – quelli cui si darà spazio maggiore –  ma anche fra la produzione vinicola dei vari Paesi, in modo da essere in grado di conoscere le caratteristiche di un Tokaji ungherese o di un Mantinìa greco.
Capitolo a sé meritano i vini fuori tavola, spesso messi da parte in favore dei distillati: per secoli il vino è stato anche aperitivo e bibita nelle ore più disparate (se ne trova valida testimonianza nelle “ombre”, ossia i bicchieri isolati che si servono nelle osterie venete dal mattino in poi) e nulla vieta di ritornare anche anche in casa a questa usanza,  rispettata del resto nell’ambiente rurale, dove stappare la bottiglia in onore dell’ospite è considerato più corretto che aprire la credenza per trarne la bottiglia di amaro o di liquore, un tempo fatto in casa. Una volta queste offerte prescrivevano un piccolo cerimoniale: vassoio, “centrini” ricamati sotto ai bicchieri, biscotti o altro per accompagnamento, specie se si proponevano marsala o vini dolci e liquorosi. Oggi è tutto più sbrigativo: bastano bottiglia e bicchieri. Naturalmente il vino dovrà avere caratteristiche particolari: di massima sarà più aromatico e di grado alcolico superiore a quello dei vini da pasto; oppure – offerta sempre ben accetta – si tratterà di uno spumante, brut o demi-sec.
Accanto ai due elementi fondamentali, il vino e la birra, vi sono poi i distillati, puri o  rielaborati come liquori, e per i quali vigono norme ancora diverse, sia per quanto concerne la preparazione “nel bicchiere” (che dà origine, fra l’altro, alle bevande allungate con acqua o miscelate – i diversi cocktails, long drinks e simili) sia per il significato che l’offerta può assumere. Presentare un whisky e soda alle 19 é, anche dal punto di vista delle relazioni umane, ben diverso dall’offerta di un cognac molto vecchio, servito nel bicchiere ballon, due o tre ore più tardi. Si passa da una bibita da bere alla svelta a un piacere che va prolungato nel tempo e sempre rinnovato da ogni piccolo sorso di alcol. Anche a questo argomento sarà dedicato un ampio capitolo in cui, fra l’altro, si possono trovare le ricetta di molti fra i più noti cocktails e long drinks. Infine va sottolineata l’iconografia di questo “Corso…”: improntata a un fine essenzialmente pratico e didascalico, contribuisce a rendere ancora più esauriente la trattazione dell’argomento.


Un po’ di storia


Autorevoli studiosi sostengono che i vocaboli woin e wain, dai quali sarebbe derivato il greco oinos, siano forme della stessa antichissima parola, anteriore alla suddivisione dei popoli indoeuropei e semitici.
Non si sa però esattamente quale sia la patria d’origine della pianta sacra a Bacco (Vitis vinifera sativa) e nemmeno si sa se discenda dalla vite silvestre, che era selvatica e cresceva in forma selvaggia a dismisura, con tronchi molto robusti e selve di tralci che avevano le dimensioni di veri e propri rami. Solo in un secondo tempo — impossibile fare il calcolo degli anni, se centinaia o millenni — la vite selvatica fu “addomesticata”.
Sicuramente la vite ebbe molta importanza per le abitudini e il ritmo lavorativo dell’uomo e sicuramente costituì un incentivo, come altre colture agricole, per fargli abbandonare la vita nomade, inducendolo a stabilirsi in luoghi collinari ameni per seguire il ciclo che dura tutto l’anno prima che l’uva giunga a maturazione e sia poi pronta ad essere trasformata prima in mosto e poi in bevanda, secondo pratiche enologiche millenarie. Queste operazioni non hanno subito, rispetto all’antichità, grandi trasformazioni o radicali mutamenti.
La leggenda attribuisce l’invenzione del vino a Noè, che sarebbe anche stato il protagonista della prima ubriacatura, suscitando le apprensioni di Sem, Cam e Jafet, suoi figli. Pur non potendosi sostenere a fondo questa tesi, resta a suo favore il fatto che il vino si produce ancora, se non proprio sulle pendici del monte Ararat, almeno in quel grande centro semitico che era allora la Transcaucasia.
Dalla Transcaucasia la vite sarebbe passata nella Tracia settentrionale, trasmigrando poi ancora, pare per opera dei navigatori fenici, dalla Siria alla Grecia, dalla Grecia all’Italia e infine nella Gallia e nell’Europa centrale, fino ai limiti climatici di coltivazione, dopo esservi stata portata dai legionari romani.
Né una parte determinante in questa diffusione della vite domestica può essere negata all’Egitto, dove, nei documenti di scambi commerciali, il vino figura ai primissimi posti. La bevanda era un simbolo di vita e di forza e veniva prodotta in cantine che utilizzavano l’uva raccolta nei giardini del Nilo, disseminati lungo il delta. Gli Egizi — che avevano tra l’altro dimestichezza con la birra — erano già dei maestri in materia.
Pratiche enologiche comuni erano la pigiatura, eseguita con i piedi, come dimostrano numerose tavolette egizie, e le filtrazioni che dovevano essere accurate, conoscendo la precisione di quel popolo nell’eseguire i lavori agricoli e artigianali. A fermentazione conclusa, il vino veniva immesso in giare di varie dimensioni, anche molto capaci, sia per l’incantinamento sia per il trasporto sulle navi vinarie. Il vino, a causa del suo prezzo elevato, era una bevanda riservata ai ricchi.
In Mesopotamia ci sono riferimenti al vino che risalgono a circa 2500 anni prima di Cristo e alcuni documenti scritti testimoniano la presenza di vigneti intorno ai palazzi dei nobili. Il vino più pregiato era riservato alle genti di nobile censo, mentre gli schiavi dovevano accontentarsi di un vino più ordinario.
Più o meno, le stesse usanze le avevano i Greci che, occupando un posto fondamentale nello sviluppo della civiltà mediterranea, erano in primo piano nella produzione vinicola, dopo essersi fatti insegnare un’arte che conoscevano poco, dal momento che erano prevalentemente pastori. Troviamo così il vino al posto d’onore nelle opere di Omero, accanto agli elmi, alle lance, alle spade. Nell’Odissea il Mare Egeo viene paragonato al «vino scuro». In documenti scoperti a Plios e all’isola di Creta, risalenti a quattordici secoli prima di Cristo, il vino viene ampiamente menzionato. Veniamo così a sapere che anche allora si usavano i bottiglioni; le coppe d’oro e d’argento venivano usate non solo dai re, ma anche dai maggiori dignitari.
Il vino veniva sempre miscelato con l’acqua, mentre per il trasporto si adoperavano otri di cuoio. Le grandi giare per la conservazione erano chiamate pìthoi e si procedeva alla loro solenne apertura in occasione delle maggiori feste. Molta importanza era attribuita  all’età del vino, che veniva considerato vecchio solo dopo quattro anni. Le donne di alto censo non potevano bere il vino e se erano scoperte subivano severe condanne; ciò non toglie che ricorressero ad artifizi per nascondere il loro vizietto segreto. Oggi le donne possono degustare in pace un buon bicchiere di vino, ma allora correvano persino il rischio di una condanna a morte.
Seguendo usanze provenienti dall’Oriente, si aggiungevano al vino anche mirra ed altre sostanze aromatiche.
La vigna era chiamata oinàs e, pur non ricevendo eccessive cure, dava i suoi frutti con generosità ed abbondanza.
Durante i banchetti spettava al «cerimoniere, di determinare il quantitativo di vino da bere, di miscelarlo correttamente con l’acqua e di dare disposizioni per il brindisi.
II “cin cin o cincin”, allora non si usava, perché questa tradizionale formula è stata presa a prestito piuttosto recentemente dai Cinesi, presso i quali rappresenta un’espressione di saluto interpretata in italiano come voce onomatopeica riproducente il suono di due bicchieri che si urtano.
Per quanto riguarda l’Italia, va ricordato che ancor oggi si usa chiamarla Enotria o Enotria tellus, cioè terra del vino, e questo vuol dire che il complimento era davvero meritato già a quei tempi. Gli Enotri occupavano la parte meridionale della Penisola, pressappoco quella che oggi corrisponde alle regioni della Basilicata e della Calabria.
E fu proprio un pioniere greco, di nome Enotro, a colonizzare quelle terre, impiantandovi le prime barbatelle che provenivano dall’Egeo. Poi, pian piano, la vite si diffuse in Sicilia, in Puglia e in Campania, indi in Toscana e nel Lazio, fino ad arrivare al territorio dell’antica Rezia, una vasta regione che abbracciava il Trentino-Alto Adige, la Valtellina, il Friuli, arrivando al basso Veneto e spingendosi fino alla Valle d’Aosta.
Secondo altre fonti, la vite avrebbe cominciato ad espandersi dalla Sicilia con i colonizzatori di Micene. Poi, con la civiltà villanoviana (mille anni prima di Cristo), sarebbe lentamente risalita a nord, ricevendo un forte impulso dagli Etruschi, colonizzatori dell’entroterra toscano e probabili primi abitatori della zona del Chianti.
Un insigne studioso del vino, Giovanni  Dalmasso, ha fornito interessanti notizie sulle origini dei vino in Italia. Per quanto riguarda la Toscana, egli formulò delle ipotesi che proverebbero l’esistenza della vite in queste contrade prima dell’avvento dell’era umana. Quindi non sarebbero stati i navigatori fenici a portare la pianta, che in quelle contrade esisteva già. Ciò sarebbe provato dai reperti di travertino affioranti nella zona di San Vivaldo dove furono ritrovate impronte fossili della Vitis vinifera, cioè l’antenata delle varietà coltivate attualmente che, come già detto, cresceva spontanea.
Addentrarsi nei misteri della preistoria è quasi impossibile, ma non meno incerti sono gli albori della storia. Di certo si sa, ad esempio, che gli Etruschi furono gli antenati di quei vignaioli toscani che fecero conoscere il Chianti in ogni parte del mondo.
Il vino “miele del cuore”, come lo definisce con caratteristica ed efficace immagine il poeta Omero, era bevuto dagli Etruschi nella “patera”, un recipiente di mescita entrato in uso ben sette secoli prima di Cristo. Aveva la forma di una coppa un po’ ovoidale, con due manici allungati a nastro per poterla più agevolmente portare alle labbra, standosene comodamente sul triclinio.
Molto importante è il fatto che furono gli antichi abitatori etruschi ad introdurre l’uso del vino «pretto», cioè naturale, mentre Greci e Romani lo pasticciavano con aggiunta non solo di acqua, ma di infusi vari di erbe, con miele ed altre sostanze dolcificanti. Non dimentichiamo che allora non esisteva lo zucchero e quindi si ricorreva ad assumerlo non solo con le sostanze alcolico-zuccherine contenute nel vino, ma anche con l’aggiunta di sostanze ricche di zuccheri, come il miele. Una terapia inconscia, se vogliamo, ma efficace, poiché l’organismo ha bisogno di una certa quantità di zuccheri per la sua perfetta funzionalità.
I visitatori dei musei etruschi, come quello bellissimo di Volterra, o delle necropoli con le pareti affrescate di Tarquinia e di Cerveteri, per esempio, non mancheranno di notare scene che hanno attinenza con la mescita del vino o con altre cerimonie enoiche. Quasi per dare ragione in anticipo a quanto affermava, lo scrittore latino di agricoltura Lucio Columella, in uno stile chiaro e comprensibile a tutti, asseriva: “Ciò che può piacere per i suoi pregi naturali è certamente superiore  a tutto” (e intendeva riferirsi al vino schietto, prodotto con i manipolatori di vini trattati non solo con sostanze vegetali, ma anche minerali.
Dal porto di Rosellae, ancor prima che fosse attivato il porto romano alle foci del Tevere, alle spalle di Grosseto (che allora non esisteva), partivano le barche per il trasporto del vino etrusco verso lidi anche assai lontani. Le anfore venivano ingegnosamente sigillate con stucco e con tamponi imbevuti d’olio. Fatta salva la leggenda di Noè, si può ben dire che il vino etrusco è stato, in realtà, uno dei più antichi del mondo. Una delle prove più certe della familiarità del popolo etrusco con il vino è il coperchio di un’urna volterriana in cui è scolpita la rappresentazione di un banchetto: una mensa riccamente imbandita e da un lato un ampio cyathus (cratere) che può essere considerato un antenato del fiasco toscano.
Durante i banchetti, come riferiscono gli studiosi della materia, gli Etruschi avevano l’usanza di spargere il vino sul pavimento come segno augurale e, per ingraziarsi gli dei, lo versavano sul fuoco delle are.
Tale usanza era definita «libagione», nome rimasto col significato di abbondante bevuta. In quanto al nome Chianti, che venne alcuni secoli dopo, esso deriverebbe dal latinoclangor, ossia squillo di tromba o grido festoso di uccelli, cioè relativo ad una contrada che era ricoperta di selve e molto spesso percorsa da bande in arme. Però il primo documento che menziona esplicitamente il vino Chianti è del 1398 e consiste in una registrazione contabile comparsa nei libri della «Compagnia del Banco» di Francesco Datini (l’inventore della cambiale): accanto alla partita di vino Chianti compare il relativo prezzo in fiorini.
All’epoca dei re di Roma e durante la Repubblica, i Romani non furono estimatori del vino. Essendo di abitudini sobrie, spartane o anche più, conoscevano poco i vini e solo qualcuno li beveva, importandoli dalla Grecia. I pochi vini che si producevano erano decisamente rustici rispetto ai nettari raffinati che volevano rivaleggiare con l’ambrosia bevuta dagli dei dell’Olimpo.
Plinio il Vecchio, il più insigne naturalista dell’antichità, non può non essere citato in una storia del vino, non solo perché se ne occupò a fondo, ma anche perché lo fece in modo critico. Infatti considerava il Falerno, ritenuto il vino con il maggior blasone, troppo aspro e forte prima di dieci anni di invecchiamento. Egli classificò minuziosamente ben 195 vini, citando quelli che avevano raggiunto autentica notorietà, comprendendo non solo i vini italiani, ma anche quelli sparsi in tutti i Paesi dell’impero. Di questi vini, 80 erano considerati di alta qualità e i restanti di tipo meno pregiato. Al commercio romano del vino, non meno importante della produzione, attendevano i mercatores vinarii. All’antico Portus Vinarius, costruito da Traiano alle foci del Tevere, in un vasto bacino interno collegato con il mare, esisteva un apposito scalo, con annesse cantine di smistamento e sale per le contrattazioni. Le navi arrivavano e partivano colme di anfore e orci di tutti i tipi. I Romani, prima ancora della conquista della Gallia, esportavano molto vino nei porti che si affacciavano sul Mediterraneo, valendosi di velieri tondi e piatti, detti corbitae. Molti di questi battelli, anche recentemente, sono stati ritrovati in perfette condizioni sul fondo del mare. Uno di essi, affondato presso la costa della Gallia nel 240 a. C., era, come si è potuto stabilire, di proprietà di un certo Marcus Sextus e trasportava vini greci imbarcati a Delo, ma aveva poi fatto scalo all’attuale Fiumicino per caricare una seconda partita di vini laziali. La nave conteneva un migliaio di anfore e alcune di esse, dopo il recupero del relitto, conservavano ancora un liquido giallastro, ossia i residui di un vino di oltre 2000 anni fa: erano state tappate con somma cura con blocchi di creta e sigillate ancor meglio.
E’ curioso ricordare che anche allora, fra gli scandali dell’Urbe, c’era di mezzo il vino. Gli annali hanno ricordato il clamore suscitato da un’azione di incetta del vino su vasta scala operata da una lega che agiva con metodi scorretti, per non dire brutali, ossia un trust vero e proprio del vino che danneggiava i produttori e i consumatori. Con speciali norme si provvide a tutelarne e a liberalizzarne sia la produzione che il commercio. Per ogni competenza attinente a questa sempre delicata materia c’era il Forum Vinarium, o centro internazionale degli scambi per il vino, come si direbbe adesso.
E comunque attraverso le conquiste dell’Impero che la vite si espande maggiormente e passa nelle Gallie, risale il Rodano fino a Lione, supera la Borgogna e costeggia il Reno, dando la possibilità ai Teutoni di esercitarsi nell’arte appassionante della vinificazione. Ad un certo punto i vini provenienti dal settentrione dettero così fastidio ai produttori ed ai mercanti romani che fu promulgata la Lex Domitiana che proibiva drasticamente la coltivazione della vite nelle province. Fu allora che molti vini dell’Italia settentrionale, in particolare quelli veneti e della Rezia, trovarono facile sbocco a nord, cioè nelle terre colpite dal divieto di produzione. Quando circa 200 anni più tardi, ed esattamente nel 276 d. C., la legge restrittiva venne revocata dall’imperatore Probo (diventato proverbiale anche per la sua equità nel trattare i problemi del vino), la viticoltura riprese nelle valli del Danubio, della Morella e del Reno, così come in Borgogna e nella attuale zona dello Champagne. Quasi tutti i più famosi vini francesi hanno avuto fra i loro lontani “padrini” dei vignaiuoli romani al seguito delle legioni di Cesare.
Non dobbiamo dimenticare che, quando le genti romane erano già molto civilizzate, i Galli erano ancora un popolo di nomadi e non possedevano né la volontà, né il temperamento, né le cognizioni tecniche per dedicarsi alla coltivazione della vite.
In breve, già al III secolo d. C. la vite occupava Io spazio che detiene attualmente, forse anche di più, poiché si estese anche sulle coste meridionali dell’Inghilterra, verso la Cornovaglia e l’isola di Wight, dove ancora adesso esistono alcuni vigneti, sia pure con produzioni minime.
Dopo la caduta dell’Impero romano, la viticoltura non risentì troppo di questo evento così traumatico per tutte le manifestazioni della capacità e dell’ingegno umano e per le libere attività pacifiche. Ad assicurarne la continuazione pensò la Chiesa. Intatti, accanto alle abbazie ed ai principali conventi – basti pensare all’Abbazia di Cluny e a Clos Vougeot in Francia, alla Certosa di Pavia – sorgevano non solo centri di produzione del vino, ma vere e proprie scuole come quella fondata sotto l’egida di Carlo Magno a Rùdesheim sulla riva sinistra del Reno. Come asserisce giustamente Pier Giovanni Garoglio nella sua esauriente Enciclopedia vitivinicola mondiale, la necessità di disporre « per la celebrazione della messa di vino “schietto” oppure “pretto” (come dicevano i Toscani) contribuì largamente all’espansione della viticoltura. Lo dimostra, tra l’altro, anche il fatto che al seguito di missionari che conquistavano nuovi territori alla religione cristiana c’erano degli specialisti per l’impianto di nuovi vigneti che si moltiplicavano per poter avere il vino sul posto».

Origini del fiasco toscano

Parlando di storia del Chianti, mi sembra interessante ricordare al corsista le origini del fiasco: ancor oggi, malgrado sia in crisi, è il contenitore più popolare, specie per quanto riguarda il vino rosso.
La prima documentazione di recipienti di vetro simili al fiasco risale al XII secolo. Il comune di San Gimignano, famoso per le sue torri ma anche per il vino, nel 1275 conferiva ad un artigiano di nome Cheronimo il permesso di aprire una fornace per «l’arte del vetro». Era anche, Cheronimo, uno di quei maestri chiamati «bicchierai» che costruivano non solo bicchieri, ma fiaschi e bottiglie. E il fiasco era destinato a soppiantare assai presto i contenitori di creta smaltata e di terracotta.
Sembra che il rivestimento in paglia del fiasco sia stato inventato nientemeno che da Leonardo da Vinci, per espressa richiesta di un gruppo di vetrai. ll fiasco odierno è lo stesso che si vede accanto al Bacco fanciullo di Guido Reni, nel bellissimo dipinto degli Uffizi di Firenze.
Per evitare le «furbizie» sulle dimensioni e capacità dei fiaschi, che avevano il difetto di essere presentati dai mercanti sempre più piccoli del dovuto, fu emanato a Firenze un decreto che stabiliva la capacità del fiasco in «mezzo quarto», ossia il corrispondente di litri 2,280. Successivamente, le vetrerie ricevettero la disposizione di stampare il bollo, cioè lo stemma del giglio di Firenze, sul collo a garanzia della misura esatta.
Fu con un fiaschetto di Chianti, offerto dal dottor Winger, che il 2 dicembre 1942 si brindò alla scoperta della pila atomica. L’umile contenitore ha assunto l’importanza di un oggetto storico: adesso è conservato al museo dell’energia nucleare di New York. L’inizio dell’epoca atomica è stato siglato dall “umor che dalla vite cola”, come dice Dante Alighieri. Tra le firme degli scienziati presenti, apposte sull’etichetta di quel fiaschetto, c’è anche quella dell’italiano Enrico Fermi.
E’ un peccato che per difficoltà di reperire la manodopera e per i costi elevati dell’operazione di impagliatura (fatta con la «sala», un’erba palustre) il fiasco tenda ad essere sostituito da altri recipienti, più o meno caratteristici, come le «chiantigiane». Per fortuna ci sono ancora diversi artigiani in Toscana che fabbricano fiaschi e «pulcianelle», fiaschetti tipici per il vino umbro.

Enologia nell’età aurea di Roma e nel Medioevo 

Già Catone aveva dettato le norme per la scelta del vitigno e del terreno in cui impiantare le viti, facendo osservazioni sul clima e sulla composizione dei terreni. Columella, con maggiore chiarezza e minore laconicità, dette una serie di norme tecniche che sono valide ancora oggi. Egli diceva che sono dannose alla vite le terre pure di argilla e sabbia, buone le terre grasse dotate di molto scheletro. Notava anche che apertos Bacchus amat colles, inoltre che in collina si otteneva meno vino che in pianura, ma decisamente migliore.
Per quanto riguarda i lavori preparatori del terreno, consigliava di liberare dapprima il suolo dai residui delle vecchie piantagioni e poi dl scavare appositi drenaggi e affossature per eliminare il più rapidamente possibile l’acqua superflua. Columella era inoltre un convinto sostenitore dello scasso totale, come si fa adesso quando si impiantano nuovi e razionali vigneti. Allora non si conoscevano però rimedi per le malattie crittogamiche, che gli antichi attribuivano a malanni mandati dagli dei, oppure, come sosteneva Plinio, alle condizioni meteorologiche avverse.
I più importanti vini dell’epoca romana erano quelli della Campania e del Lazio, capeggiati dal Falerno (detto ardens da Orazio, generosus da Tibullo, addirittura immortale da Marziale), ma ne esistevano di rinomati un po’ in tutte le regioni. In Sicilia c’erano il Mamertino, il vino di Giulio Cesare, il Taormino, il Siracusano; nella Gallia transpadana i vini retici; nell’attuale Veneto l’Acinatico e il Pucino, nelle Romagne il Trebulanus, o Trebbiano. La coltura della vite ai tempi di Columella raggiunse una perfezione tale da essere oggetto di ammirazione in tutti i tempi. Per l’enologia le cose furono un po’ diverse in quanto mancava totalmente l’ausilio della scienza e anche dal Medioevo fino al nostro secolo le condizioni rimasero più o meno invariate, con gli inevitabili alti e bassi. Paganino Bonafé nel suo poemetto didascalico II tesoro dei Rustici (1360) racconta come si «chiarificavano» i vini, ossia mediante l’aggiunta di chiare d’uo-vo, acqua e sale, oppure con latte di capra e sale. Per la pulizia delle botti veniva consigliato ai cantinieri di non lavarle mai con acqua e di pulirle bene giù nel fondo, dove si raccolgono le fecce. Le pratiche enotecniche erano tutte svolte sulla base di conoscenze empiriche e anche di credenze tramandate dalla tradizione popolare. E questa tradizione, fortemente cristiana, suggeriva ai viticoltori di porre le viti sotto la protezione di particolari santi (San Vincenzo nella Borgogna, Sant’Urbano in Renania, San Teodulo in Svizzera). Inoltre gli artigiani hanno sempre decorato gli oggetti di uso comune per le operazioni viticole. Il ceppo della vite, sui tini e sui vasi vinari, viene assunto a simbolo di Cristo e della vita eterna.
Accanto ai conventi funzionava quasi sempre un centro vitivinicolo, per cui i legami tra il vino e la religione diventavano sempre più stretti; così pure i feudatari facevano a gara nel coltivare vigneti sempre più belli intorno alle mura dei castelli.
I vini più famosi del Medioevo erano, in Italia, la Vernaza bresciana, il Ribolla, il Terrano e la Malvasia istriana; la Liguria vantava il vino delle Cinque Terre; la Toscana il Trebbiano, la Malvasia, il Sangioveto, il Vermiglio, l’Aleatico, i vini di Montepulciano e la Vernaccia di San Gimignano; ricercata la Vernaccia delle Marche; per il Lazio primeggiavano il Greco, la Romeca, la Guernaccia. Grandemente apprezzati i vari Moscati e la Malvasia di Lipari. Il Piemonte non aveva ancora la fama vinicola raggiunta nell’Ottocento e incrementata sempre più nel secolo attuale. Si espresse più tardi quando venne capita l’importanza del celebre vitigno Nebbiolo il quale dà origine a numerosi prodotti locali, secondo i territori dove viene coltivato, e va da Barolo a Barbaresco a Gattinara, salendo fino in Valtellina. Intanto, storie e leggende, proverbi e canzoni continuavano a fiorire sul vino. Naturalmente la leggenda più diffusa è quella di Bacco che, tra l’altro, sarebbe nato due volte. II suo legame con il mondo del vino sarebbe nato dal fatto che egli, mentre si riposava presso un albero, lo vide tanto bello da volerlo portare con sé. Dopo vari magici espedienti, non farlo seccare, lo piantò a Nisa e si accorse, sua grande meraviglia, che erano cresciuti grappoli meravigliosi che, spremuti, davano agli uomini una bevanda degna di sua madre Sèmele (in greco significa “strepito”), quindi strepitosa. Va detto anche che alla comparsa del vino le altre bevande, tipo idromele, furono del tutto trascurate. Il coro delle Baccanti di Euripide afferma che il vino è il nettare che rallegra la tavola degli dei, ne aumenta la felicità, il sonno e l’oblio dei mali.
Tornando alla storia del vino, che per necessita di spazio sono costretto a riassumere per ciò che riguarda i periodi di transizione, si può dire che nel corso del Rinascimento la carta viticola europea e i sistemi di vinificazione non hanno subito apprezzabili spostamenti. I più sensibili e vasti mutamenti si ebbero con l’espansione del colonialismo. Con i pionieri la viticoltura arrivò in California, nell’America Centrale e nel Sudamerica. La Francia portò, insieme con l’Italia, le viti in alcuni Paesi dell’Africa settentrionale, come l’Algeria e la Tunisia, mentre la Spagna si occupò del Marocco. La comparsa dei flagelli venuti da oltre oceano, cioè l’oidio, la fillossera e la peronospora, oltre ad avere l’effetto delle grandi pestilenze perché distrussero un’incalcolabile quantità di vigneti, causarono anche una vera e propria rivoluzione nella coltura della vite, che da statica divenne dinamica e da empirica si trasformò in scientifica.
Si deve infatti al progredire della chimica e della biologia se furono man mano svelati i misteriosi fenomeni legati alla vinificazione. Vennero anche inventate numerose macchine, tra cui l’ammostatrice che sostituì, sia pure con molta lentezza, la tradizionale pigiatura con i piedi che ha sempre dato un sacco di fastidio agli igienisti. In Piemonte furono realizzati progressi magnifici nella produzione dei vini e del vermut, uno speciale vino diventato noto in tutto il mondo per merito delle case che ancor oggi lo producono con sistemi sempre più aggiornati e scrupolosi. Anche i re sabaudi e il conte di Cavour si interessarono vivamente all’enologia e fu da allora che il Barolo fu detto «vino da re e re dei vini». Era stato creato dai marchesi Falletti di Barolo, appassionati viticoltori.
Di grande rilievo è il posto occupato dal vino nell’arte, nella poesia, nella musica e nei proverbi (Ottobre: vino e cantina, da sera a mattina»). Dante Alighieri in una terzina del Paradiso ammonisce che la «vigna tosto imbianca se ‘l vignaio è reo». Lorenzo de’ Medici per decantare le grazie della sua Nencia da Barberino afferma che «è più dolce della Malvagìa (malvasia). Nel Decamerone del Boc-caccio il vino è citato sovente tanto da apparire come «un condimento naturale». La casa di Francesco Petrarca ad Arquà era circondata da un vigneto e il poeta non disdegnava di dedicarvi le sue cure, compiendo la sua personale esperienza enologica.
Nella tradizione toscana cinquecentesca troviamo anche le «cicalate», cioè delle chiacchierate poetiche che si tenevano durante le riunioni conviviali dell’Accademia della Crusca. Durante una di queste, Bastiano de’ Rossi incantò i commensali con una splendida cicalata dedicata alle osterie fiorentine. Immaginando che vi arrivasse in pellegrinaggio perfino il grande Omero, affermò che la balia del grande rapsodo gli fe’ poppar vin di Chianti.
Le riproduzioni pittoriche del dio Bacco sono così tante che occorrerebbero numerose pagine per citarle tutte. Citiamo il Bacco di Leonardo da Vinci al Museo del Louvre a Parigi, il Baccanale di Poussin della Galleria Nazionale di Londra, le Nozze di Cana del Tintoretto, il Fauno di Prassitele del Museo Vaticano, il Silevo ubriaco, gli affreschi con il Trionfo di Bacco e Arianna nel palazzo Farnese di Roma, il Bacco fanciullo di Guido Reni incoronato di Pampini degli Uffizi di Firenze e i notissimi Bocchini del Caravaggio.

Lessico

Abboccato – Si dice di un vino che contiene una percentuale di zucchero naturale (non fermentato) modesta ma avvertibile nel corso della degustazione.
Acerbo – Sgradevole caratteristica di un vino proveniente da uve immature, e quindi molto ricco di acidi organici, che gli conferiscono un gusto come di mela acerba.
Acescenza – Detta anche «spunto» o « fortore ». Malattia del vino originata dal Bacterium aceti che (specie nei vini deboli d’alcol e di struttura) scompone l’alcol etilico in acido acetico e acqua: il vino, prima infiacchito e insipido, diviene acescente.
Acidità – Si distingue in fissa, volatile e totale, e forma la struttura portante degli acidi organici contenuti nell’uva, trasmessi, elaborati, al vino. La volatile è data dagli acidi detti «volatili» (specie quello acetico) perché si separano mediante distillazione. L’invecchiamento ne accentua la quantità ma esalta il profumo del vino. L’insieme di queste due forme costituisce l’acidità totale, da cui dipendono la salute e la buona conservazione” di un vino, la sua freschezza e il suo «tono nervoso».
Acidulo – Vino con acidità spiccata, dovuta ad acidi tartarico e malico liberi o a sali acidi che determinano un’acidità non piacevole quando è troppo accentuata.
Affumicato – Sensazione olfattiva nettamente avvertibile in vini provenienti da determinati vigneti, come le «schiave» dell’Alto Adige o il Pouilly-Fumé ottenuto dal Sauvignon sulla Loira.
Aggressivo – Vino che attacca decisamente le papille gustative con spiacevole sensazione. Il difetto deriva da eccessiva acidità, insufficiente maturazione dell’uva, eccesso di tannino oppure lunga permanenza del vino sulle vinacce.
Alcolico – Quando l’alcol predomina nettamente sugli altri componenti, sia che derivi naturalmente da uve ad alto contenuto zuccherino, sia per aggiunta diretta di alcol etilico (alcolizzazione) nei casi in cui la pratica é consentita. L’alcol provoca una sensazione gustativa pseudocalorica ben avvertibile, specie a livello del retrobocca e dell’esofago.
Allappante – Sensazione sgradevole di asprezza e ruvidità che si rileva sul dorso della lingua degustando. E dovuta soprattutto ad eccesso di tannino ed è tipica dei vini giovani ben strutturati (Barbera, Gattinara, Barolo) da destinare a lungo invecchiamento.
Amabile – Si dice di un vino che contiene una sensibile percentuale di zucchero residuo — o aggiunto — nettamente avvertibile nel corso della degustazione. E più che «abboccato.
Amaro – Malattia che attacca i vini, anche di buona struttura, rendendoli insipidi inizialmente e poi decisamente amari: è dovuta a degenerazione di alcoli superiori (glicerina) e dell’acido tartarico. Si può prevenire con la pastorizzazione». Da non confondere col termine «amarognolo.
Ammaccato – Caratteristico gusto di secco ed ammuffito presente in vini che derivano da uve colpite dalla grandine: denuncia in genere una cattiva conservabilità.
Ampio – Termine che designa sensazioni gustative ampie e complete all’assaggio: è proprio di vini molto ricchi e ben strutturati dotati di perfetto equilibrio ed ottima armonia.
Angoloso – Sgradevole sensazione di ruvidità tipica di vini immaturi e disarmonici.
Aristocratico– Si dice di un vino dotato di eccezionali doti di finezza, in genere conferitegli dalla nobiltà del vitigno di provenienza.
Armonico – Termine che designa l’insieme delle sensazioni gradevoli che suscita un vino di distinta ed equilibrata composizione.
Aroma – Sensazione olfattiva e gustativa, in genere di carattere positivo, derivante dal vitigno di provenienza, che costituisce specifica caratteristica distintiva e si percepisce per via retronasale.
E generato da una serie di sostanze poste appena al disotto della buccia dell’acino e tende a diminuire nel corso della fermentazione tumultuosa; ecco perché i vini dolci sono più aromatici di quelli secchi. Tipici i moscati, le malvasie, gli aleatici eccetera.
Aromatizzazione – Pratica enologica consistente nell’aggiunta di sostanze aromatizzanti (china, salvia sclarea, arancio amaro, vaniglia eccetera) in vini di norma ad elevato tenore alcolico — secchi o amabili — quando la legge lo consente. Tipico il caso del vermut italiano.
Asciutto – Termine che sembra in contrasto in un elemento liquido: si dice di un vino il cui sapore finisce in bocca con una gradevole sensazione di «asciutto» e di pulito.
Aspro – Sensazione di ruvidità che sembra raschiare la lingua e le mucose della bocca. E dovuto ad eccesso di tannino o di acidi organici che, col tempo, precipitano per salificazione rendendo il vino più gradevole.
“Aspro” é più che “angoloso”.
Astringente – In genere é sinonimo di “allapante”, ed é dovuto all’eccesso di tannino nei vini giovani, ma si può intendere anche in senso diverso: alcuni vini vecchi danno le medesime sensazioni — sia pure in forme più attenuate —dovute però alla presenza di altri composti polifenolici.
Austero – Caratteristica molto apprezzabile di alcuni grandi vini rossi italiani invecchiati. E’ dovuta alla presenza di tannini residui che tendono a soverchiare gli altri componenti impedendo loro di emergere nel corso dell’assaggio. La sensazione varia o relazione alla temperatura a cui il vino viene degustato.
Bouquet – Espressione tipica dei Francesi, traducibile in italiano con “mazzo di fiori”. Designa l’insieme delle sensazioni olfattive che procura un vino di buona provenienza dopo un giusto periodo d’invecchiamento.
Brillante – E’ il termine più elevato nella scala del valori attribuiti alla limpidezza di un vino. Di norma si riferisce a champagnes e spumanti.
Caldo – Sensazione pseudocalorica che si rileva nei vini ad elevata gradazione e ricchi di glicerina: è dovuta alla rapida ossidazione degli alcoli.
Camicia – Pellicola che riveste le pareti interne delle bottiglie di vini rossi, intensamente colorati, sottoposti a lungo invecchiamento: è costituita, in prevalenza, dalle materie coloranti — naturali componenti del vino — che tendono a separarsi col tempo. Il processo si accelera se il vetro è chiaro.
Carattere – Si dice che un vino «ha carattere» quando afferma decisamente, attraverso i suoi componenti, la sua tipicità.
Caratteristico – Termine che si attribuiste a vini facilmente riconoscibili per uno o più elementi specifici di particolare tipicità: colore, odore o sapore.
Carezzevole – Gradevole impressione di fluidità che si riporta nell’assaggio di vini ricchi di glicerina, armoniosi e ben equilibrati.
Completo – Vino di ottima costituzione che riunisce in sé tutte le qualità positive: profumo, eleganza, finezza, razza ed armonia; si riscontra solo nelle grandi annate.
Consistente – Designa un vino dotato di struttura molto robusta, i cui componenti siano presenti in misura rilevante, indipendentemente da considerazioni qualitative.
Corpo o Corposo – Insieme degli elementi che compongono la struttura di un vino, con particolare riferimento alle materie estrattive.
Il secondo termine indica ricchezza di alcol, di estratto secco, di colore e di sapore.
Corroborante – Si dice di un vino molto ricco di alcol e di estratto, con deciso sapore amaro gradevole, che agisce come un tonico e viene quindi consigliato negli stati di deperimento organico.
Cultivar – Termine botanico che distingue le diverse sottospecie di uno stesso vitigno.
Debole – Vino scarsamente dotato per carenza qualitativa e quantitativa di componenti, in particolare alcol ed estratto.
Deciso – Si dice di un sapore franco e marcato che si rivela con immediatezza.
Decrepito – Vino sottoposto a un invecchiamento troppo prolungato, nel corso del quale i suoi componenti hanno subito un intenso processo di degenerazione che rende impossibile qualsiasi valutazione degustativa.
Delicato – Attributo di un sapore o di un profumo scarsamente rilevati ma dotati di finezza ed armonia.
Deposito – Vedi “Sedimento”.
Distinto – Vedi “Elegante”.
Dolce – Termine che sta ad indicare unicamente la presenza di zucchero, in misura variabile ma rilevante — naturale o aggiunto —nettamente percepibile alla degustazione.
In generale definisce un sapore gradevole, ma in modo vago e impreciso, e assume significati diversi secondo i vini cui si riferisce.
Dolciastro – Vino in cui il dolce appare quasi isolato dagli altri componenti, come se tosse stato aggiunto. Ciò si verifica quando vengono impiegati zuccheri di scarto, dosi di saccarina ed altri metodi proibiti dalla legge.
Duro – Si dice di un vino rosso giovane o disarmonico troppo ricco di acidità e di tannino in rapporto alla gradazione alcolica. Si attenua di norma con l’invecchiamento.
Elegante – Questa proprietà si attribuisce ad un vino — solitamente di buona razza — in cui siano fuse armonicamente le caratteristiche più pregevoli.
Equilibrato – Si riferisce ad un vino i cui elementi costitutivi siano presenti in giuste porzioni, in modo che nessuno prova sugli altri, ma che tutti siano armoniosamente fusi.
Se anche uno solo dei componenti eccede o difetta, si avrà un prodotto squilibrato.
Erbaceo – Particolare sapore conferito a determinati vini (Merlot trentino, Freisa piemontese) dal vitigno di provenienza.
Può anche essere dovuto alla permanenza del vino sui graspi nel corso della fermentazione.
Estratto – L’insieme delle sostanze rimaste dopo che il vino è stato sottoposto a ebollizione prolungata. Se il liquido evapora del tutto, si ha “l’estratto secco”. La ricchezza di estratto determina il “corpo” del vino.
Fiacco Vino che manca di nerbo e che tende a perdere facilmente il proprio equilibrio dopo qualsiasi normale pratica di cantina.
Finezza – Caratteristica distintiva della provenienza da un vitigno nobile. Si può riferire anche a vini che abbiano un gusto delicato ed un profumo sottile.
Finisce bene – Si dice di un vino i cui elementi costitutivi sono in perfetta sintonia. Dopo aver favorevolmente impressionato l’olfatto e il palato, la buona sensazione è avvertita anche dallo stomaco.
Fluidità – Si rileva visivamente mentre si versa il vino nel bicchiere e se ne osserva il comportamento. La fluidità è in rapporto con il contenuto alcolico e la glicerina. Se scorrevole, iI vino è “fluido” ma può anche essere denso, oleoso e vischioso.
Fondo – Vedi “Sedimento”.
Fragranza – Sensazione olfattiva e gustativa che ricorda fiori o frutti maturi, o anche le due cose insieme, ed è dovuta all’attività dei lieviti (microorganismi unicellulari presenti sulla buccia dell’uva, dove sono trattenuti da una sostanza cerosa detta “pruina”.)
Franco –  E un vino che da sensazioni nette e ben precise sia all’olfatto che al gusto.
Fresco – Caratteristica tipica di certi vini giovani nei quali si assommano felicemente vivacità, fruttato e gradevole acidità.
Frizzante – Caratteristico sviluppo di gas acido carbonico dovuto a naturali fermentazioni secondarie in bottiglia a spese dello zucchero residuo. Varia di intensità a seconda del contenuto zuccherino. Es.: Moscato naturale, lambrusco, Brachetto eccetera.
Fusto (gusto di) – Sgradevole sapore conferito al vino da recipienti di legno non perfettamente puliti, o lasciati a lungo inutilizzati, o attaccati da muffe.
Gagliardo – Vino molto robusto e ricco di alcol che sale in fretta alla testa e risulta inebriante.
Generoso – Vino caldo e vigoroso che dà una gradevole sensazione di benessere producendo un effetto tonico senza inebriare.
Giovane – Termine che assume significati diversi a seconda dei vini cui sl riferisce. Si applica sia ai vini giovani di età sia a vini che — pur invecchiati per qualche tempo — abbiano mantenuto caratteristiche giovanili.
Goudron – Tradotto letteralmente “catrame”. Caratteristico profumo di vini vecchi ben strutturati che ricorda — in forma nobilitata— gli oli essenziali del catrame.
Gradevole – Vino che all’assaggio sia equilibrato e armonico e finisca bene in bocca.
Grasso – Si attribuisce a un vino molto ricco di glicerina, in genere ancora con residuo zuccherino. Si rivela all’assaggio per la tipica sensazione di untuosità, ed è osservabile anche sulle pareti del bicchiere perché si formano le cosiddette “lacrime” dovute alla maggior tensione superficiale della glicerina rispetto a quella degli altri componenti.
Gusto – Insieme delle sensazioni olfattive e gustative del senso chimico comune dovute alle proprietà del prodotto in esame. In senso stretto, in fisiologia, é sinonimo di sapore.
Immaturo – Si dice di un vino che non abbia ancora raggiunto la pienezza e la completezza del sapore e del profumo. In alcuni casi, quando il vino è conservato in ambienti troppo freddi ed in vasche di cemento, stenta a raggiungere la maturazione anche dopo parecchio tempo.
Inebriante – Sono i vini che si ossidano molto rapidamente nell’organismo umano sottraendo ossigeno dal sangue e causando così uno stato di ebbrezza. A digiuno questo effetto viene raggiunto facilmente.
Leggero – Vino dotato di modesta gradazione alcolica ma di buon equilibrio: è caratteristica apprezzabile in certi vini (Lambrusco, Bardolino, Erbaluce) che si possono bere in quantità senza conseguenze inebrianti.
Limpido – Dopo «brillante» e «limpidissimo», questo termine designa una qualità molto apprezzata dai consumatori, specie nei vini bianchi. Se non raggiunta naturalmente, si ricorre a semplici pratiche enologiche (travasi, filtrazioni, chiarificazione) badando a non sminuire il profumo e l’aroma del vino.
Maderizzato – Vino — per solito bianco o rosato di modesta struttura — che abbia subito un processo di ossidazione naturale mutando gli alcoli in aldeidi. II sapore si infiacchisce e ricorda, degenerato, il Madera o il Marsala invecchiati, e il colore si incupisce.
Magro – Attributo di vini deboli di estratto che Però hanno buon nerbo e sapidità dovuti a ricchezza di sali minerali. In certi vini è caratteristica molto apprezzabile.
Marsalato – Vedi “Maderizzato”.
Millesimo – Termine di derivazione francese, attribuito in particolare agli champagnes, che sta ad indicare un’annata di produzione particolarmente felice.
Morbido – Si intende con lo stesso significato di «carezzevole», ma in senso meno nobile.
Muffa – Gusto sgradevole conferito al vino da uve attaccate da funghi unicellulari (Botrytis) in annate particolarmente umide. Si può intendere in senso positivo solo nel caso della «muffa nobile» che fa aumentare. il tenore zuccherino dell’uva e dà al vino un sapore gradevolissimo assolutamente eccezionale: Moscato trentino, Sauternes, Picolit, passiti.
Muschio o Muschiato – Gradevole aroma specifico del vitigno «Moscato» che tende ad attenuarsi nel corso della fermentazione alcolica. Nei tipi dolci è molto più marcato che in quelli secchi.
Nerbo – Qualità positiva legata ad una struttura acida ben equilibrata. Conferisce sempre tono e mette in risalto tutte le buone caratteristiche di un vino che viene anche definito «nervoso».
Netto – Si intende nello stesso senso di «franco» ma può significare la sensazione data da un vino che «chiude bene» in bocca senza ripercussioni di retrogusto.
Neutro – E’ un vino correttamente impostato che non ha particolare «marca» derivante dai vitigno di provenienza o dal terreno. Ha sempre acidità totale piuttosto modesta.
Odore – Sensazione percepita dall’organo dell’olfatto nell’aspirare composti volatili. Può designare sia i composti volatili in se stessi sia la qualità delle sensazioni particolari che essi provocano.
Oleoso – E’ un vino malato attaccato da particolari batteri anaerobici che ne alterano la struttura rendendolo filante: versandolo non produce rumore. E’ tipico di vini bianchi già imbottigliati poveri di alcol e di tannino: diventano opalescenti e insipidi.
Opalescenza – Alterazione del colore e della limpidezza dovuta a cause varie e non sempre ben identificabili, principalmente ad eccesso di sostanze azotate in sospensione o per rapide escursioni termiche.
Ossidazione – Malattia del vino, dovuta a prolungato contatto con l’ossigeno dell’aria, che attacca soprattutto i vini bianchi, alterandone il colore e il sapore.
Passante – Caratteristica di vini leggeri con tenore alcolico e struttura modesti, tali da potersi bere con facilità.
Perlage – In italiano “fontanella”. Bollicine di gas carbonico tipiche dei vini spumanti, che si liberano partendo dalle depressioni del vetro del bicchiere — in genere dal fondo — per salire continuamente verso la superficie, espandendosi.
Persistenza – Tempo durante il quale persiste — apparentemente in bocca — una sensazione di aroma dopo che il prodotto degustato è stato espulso dalla bocca, ed è dovuta in prevalenza non ai costituenti volatili del vino, ma a quelli estrattivi.
Si distingue dal retrogusto per il fatto che le sensazioni aromatiche che comporta sono identiche o molto vicine a quelle che erano state percepite mentre il vino era ancora nella cavità orale.
Personalità – Vedi “Carattere”.
Pieno – Si applica ad un vino di buon tenore alcolico; corposo ed equilibrato.
Profumo – Insieme delle sensazioni olfattive di un vino. Risulta dalla combinazione dell’aroma dovuto al vitigno e dal profumo vero e proprio, dovuto sia all’attività dei lieviti (fermenti) sia alla progressiva ossidazione che avviene nel corso dell’invecchiamento.
“Pronta beva” – Espressione del vernacolo toscano per designare quei vini che giungono molto presto a maturazione e che quindi vanno bevuti giovani.
Retrogusto – Sensazione gustativa e olfattiva che appare permanendo anche a lungo dopo che il vino è stato espulso dalla bocca a seguito della degustazione. In genere, ha senso positivo e differisce dalle sensazioni percepite inizialmente in bocca.
Retronasale – Designa le sensazioni olfattive i cui stimoli vengono condotti sulle mucose olfattive mediante l’espirazione, partendo dal vino messo in bocca per la degustazione.
Robusto – Vedi “Consistente”.
Rotondo – Vino cui la glicerina (alcol superiore), gli zuccheri residui e la moderata acidità totale danno piacevole morbidezza.
Ruvido – Vedi “Angoloso” e “Aspro”.
Salmastro – Vino in cui si ravvisa il sapore del sale da cucina, il che accade in certi vini ottenuti da uve coltivate in terreni salati di bonifica e presso il mare. In alcuni casi il vino è anche «resinato» (prende la resina) quando rimane per un certo tempo in fusti di abete, di larice o di altre piante resinose.
Sapido – Gradevole sensazione gustativa che si rileva in vini di buona razza, nati su terreni particolarmente ricchi di sali minerali. Si impiega anche il termine «salato».
Sapore – Designa le quattro sensazioni fondamentali (acido, amaro, salato, dolce), e il loro insieme, derivate dallo stimolo dei recettori gustativi della lingua e dovute alle proprietà dei corpi che inducono questo stimolo.
Sbattuto – Si dice di un vino, sia sfuso che in bottiglia, che abbia subito un “trauma” dovuto al trasporto o a particolari pratiche di cantina, come travasi o pompaggi. E uno stato transitorio, più o meno lungo, al termine del quale il vino ritrova il suo equilibrio.
Sbollito – Sensazione di fiacchezza che si rileva in un vino che non ha seguito un processo d’invecchiamento favorevole e che ha perso nerbo e personalità.
«Scappa in bocca» – Vino che può dare sensazioni anche gradevoli ma troppo sfuggenti, così da riuscire deludente.
Scarno – Qualifica un vino di scarsa gradazione alcolica, relativamente corretto, ma con sapore e odore insufficienti.
Schiuma – Si forma alla sommità di un recipiente versando il vino. Può essere fuggevole, in vini nervosi, o persistente, in vini grassi o colpiti da malattie. Dal suo colore si possono anche giudicare la salute e l’età del vino.
Scolorito – Vino che rivela macroscopicamente una decolorazione netta rispetto al suo standard ordinario. E normale nei vini rossi invecchiati per la naturale precipitazione delle materie coloranti.
Scorrevole – Designa semplicemente un vino fresco e leggero che scivola facilmente e gradevolmente in gola.
Secco – Si dice di un vino in cui lo zucchero si sia trasformato completamente in alcoli primari nel corso della fermentazione, o sia presente in minime tracce non avvertibili alla degustazione. Se questo vino é ricco di glicerina, può apparire morbido anche se non ha zucchero residuo.
Sedimento – Naturale deposito di sostanze insolubili che si forma a causa della salificazione degli acidi organici presenti nel vino (particolarmente acido tartarico) e della precipitazione delle materie coloranti combinate. Si separa mediante travaso.
Selvatico – Sensazione olfattiva o gustativa, anche molto marcata, tipica dei vini derivanti da vitigni ibridi produttori diretti. Può provenire anche da particolari malattie, come si rileva negli champagnes molto invecchiati.
Sfumato – Si dice di un vino che non dia sensazioni nette e precise, ma solo accennate e sfuggenti, nel colore, nell’odore e nel sapore.
Smaccato – Designa, in senso negativo, un odore o un sapore che si rivelano pesantemente ai nostri sensi. Si riferisce, in particolare, a sapori dolci o fruttati piuttosto ordinari e sgradevolmente persistenti.
Sottile – Vino di buona composizione ed armonia, con tutti i componenti in misura modesta che diano sensazioni apprezzabili ed eleganti, ma flebili.
Sottofondo – Sensazioni sottili che vanno intercettate quasi fra le pieghe di quelle principali — più appariscenti — e che completano piacevolmente l’armonia dell’insieme.
Spogliato – Si dice di un vino in via di maturazione in cui, per cause varie, sia avvenuta una sedimentazione eccessiva, tale da impoverirlo in alcuni componenti, lasciando una sensazione di squilibrio e di vuoto.
Spumanti – Vini sottoposti ad una particolare rifermentazione in grandi recipienti (metodo Charmat) o direttamente in bottiglia (metodo classico o Champenois) in modo che assumano la «presa di spuma» dovuta allo sviluppo dell’anidride carbonica in misura non inferiore alle cinque atmosfere, per legge. Sono di solito bianchi, più raramente rosati o rossi, con sapore amabile, mezzo secco o totalmente secco (demi-sec, brut, extra brut).
Spumeggiante – Si attribuisce a vini contenenti una certa percentuale di zucchero residuo che rifermenta naturalmente in bottiglia conferendo il tipico frizzante. A volte lasciano un leggero sedimento.
Spunto – Vedi «Acescenza ».
Stabile – Si dice di un vino ben strutturato e di sicura conservabilità, indipendentemente da considerazioni qualitative.
Stoffa – Designa l’insieme dei componenti, la personalità e il carattere del vino. Può essere distinta, consistente, elegante, oppure tenue, ruvida eccetera.
Tannico – Vino molto ricco di tannini, sostanze organiche complesse presenti nella buccia, nel graspo e nei semi dell’uva. Si trovano soprattutto nei vini giovani rossi e sono destinati a combinarsi formando sostanze insolubili che precipitano. Dal tannino, durante l’invecchiamento, vengono generati i profumi.
Tappo (gusto di) – Il “gusto di tappo” viene conferito al vino dal sughero non stagionato o attaccato dalle muffe ed è molto sgradevole. Se si tratta di un sentore leggero, può scomparire quasi totalmente lasciando la bottiglia aperta per qualche minuto.
Tenue – Vedi «Sfumato».
Terroso – Si attribuisce a vini nati da uve poste su terreni di particolare composizione che conferiscono loro un sapore sgradevole e marcato, specifico della zona di provenienza.
Torbido – Si dice di un vino la cui limpidezza sia alterata in maniera molto notevole da materie in sospensione destinate a decantare successivamente (alla svinatura). Può anche dipendere da malattie causate da microrganismi che portano alla distruzione del prodotto.
Vecchio – Vino che ha raggiunto o superato lo stadio della «maturazione», assumendo caratteri ben affermati di colore, profumo e sapore. L’accezione del termine è molto relativa perché varia secondo i vini cui viene applicato: in genere si intende un periodo di tempo compreso fra i 5 e i 15 anni.
Velato – Si dice di un vino la cui limpidezza è alterata da piccole particelle in sospensione. E’ tipico nei vini giovani negli stadi successivi alla fermentazione principale: scompare per sedimentazione dopo un certo tempo. In qualche caso può essere dovuto a malattie.
Vellutato – Si attribuisce a carezzevoli impressioni gustative che richiamano quelle tattili del velluto. Si tratta sempre di vini invecchiati di buona armonia, con acidità totale moderata e ricchi di glicerina.
Vena – Leggero sentore amabile che si avverte in vini bianchi o rossi contenenti residui zuccherini indecomposti. A volte devia dal sapore principale.
Verde – Vino ottenuto da uve non perfettamente mature che gli hanno trasmesso torme acide anomale. Se l’acidità non è troppo elevata, l’equilibrio può anche essere raggiunto successivamente ed il vino assumerà un durevole tono di freschezza.
Vigoroso – Vedi «Consistente » e «Generoso ».
Vinoso – Si dice di un vino giovane dotato di buona struttura, equilibrio e gradazione alcolica, con carattere ben affermato nelle impressioni olfattive e gustative.
Vivace – Vedi “Fresco”
Vuoto – Ha un significato analogo a quello di «debole», ma in senso peggiorativo.

L’uva e il vino

L’uva, ossia il frutto della vite, formato da bacche (acini) riunite in un’infruttescenza (o grappolo), fornisce la materia prima per la preparazione del vino. Il grappolo è costituito da un raspo e da vari peduncoli con pedicelli sui quali si inseriscono gli acini. Questi si compongono di buccia (epicarpo), polpa (mesocarpo) e semi o vinaccioli (endocarpo). L’insieme della polpa è costituito da acqua, zuccheri, acidi, mucillaggini, sali e altre sostanze minerali, azotate, pertiche, vitamine; infine dai vinaccioli o semi.
La buccia dell’acino contiene essenzialmente materie coloranti (da cui deriva il colore dei vari vini), inoltre aromi, tannino e sostanze minerali. Ha una funzione protettiva e reca esternamente la pruina, una specie di cera che ha il compito di proteggere l’acino dall’umidità, dall’evaporazione eccessiva e dal permanere in superficie di gocce d’acqua.
Una prolungata e insistente umidità favorisce l’attacco di un fungo microscopico che apre nella buccia delle fessure, mettendo allo scoperto la polpa dell’uva e asportandone le sostanze nutritive. La Botrytis o, come dicono comunemente i vignaioli, “botrite”, può avere conseguenze disastrose per il raccolto. In alcuni casi particolari e per certi tipi di vini speciali si lascia sviluppare apposta la botrite perché conferisce pregio alle uve, insieme al d altri fattori connessi con la ritardata maturazione. Le sostanze che avvolgono la buccia sono chiamate in questi casi “muffe nobili”. Vini che si avvalgono dell’apporto della “pourriture noble” sono il Tokaj ungherese e lo Chàteau d’Yquem, ma ne abbiamo parecchi anche in Italia, tra cui il Picolit.
Va anche ricordato che le sostanze minerali contenute nella polpa sono date dai sali che la vite ha assorbito dal terreno e che costituiscono le ceneri del mosto e del vino.
Elementi temibili per la stabilità del futuro vino sono il ferro e il calcio. Il primo, se presente in notevoli proporzioni, provoca dannosi intorbidamenti. L’uva e il mosto contengono vitamina A, B, C ed altre in quantità variabile. I vinaccioli cedono al mosto soprattutto tannino, in quantità tanto maggiore quanto più lungo è il tempo di contatto.

L’uva e il vino: Influenza dell’ambiente

La vite ha una grande capacità di adattamento all’ambiente, tollera anche estremi termici notevoli, ma occorrono determinate temperature minime per i suoi principali fenomeni vitali. Per esempio, perché avvenga la fioritura, la temperatura deve raggiungere almeno i 16 °C. Per la maturazione occorrono da 18 a 23 °C. Talvolta può essere la luce a supplire a qualche difetto di temperatura. Un eccesso di precipitazioni, inoltre, in tutte le fasi vegetative, favorisce lo sviluppo delle malattie crittogamiche. Più che la siccità, la vite teme l’umidità, le brine primaverili, le nebbie troppo frequenti, le rugiade troppo abbondanti, i venti impetuosi. Salvo alcuni tratti della pianura padana, non c’è praticamente regione italiana dove la vite non sia coltivata. In Valle d’Aosta, in Valtellina, nel Trentino-Alto Adige, la vite si spinge a limiti decisamente notevoli, non tanto come latitudine, ma come altitudine. I vigneti da cui si ricava il Blanc de Morgex sorgono su fasce di terreno che superano i 1000 metri di quota. Va segnalato che, di regola, il limite è di 600 metri, ma in Valtellina e nel Trentino-Alto Adige molti vigneti si spingono fino a 800-900 metri sul livello del mare. Come dice Guyot, la vite chiede “quel po’ di acqua, di nutrimento e di sole che le sono strettamente necessari”. Però dal punto di vista enologIco ed agro-economico il problema si fa più complicato. A seconda delle varie zone vinicole, per le quali va accertata la vocazione», occorre innanzitutto scegliere le varietà di vitigni di sicuro successo, anche per quanto concerne l’accrescimento e la maturazione dell’uva. Con la sua lunga estensione in latitudine, la Penisola comporta differenze notevoli di clima e di temperatura. Abbiamo a disposizibne una varietà di vitigni eccezionale, gran parte dei quali collaudati per esperienza secolare, ma per la scelta è di norma preferibile attenersi alle varietà locali.
Infatti ogni vitigno è adatto specialmente all’ambiente in cui è sorto o nel quale è coltivato da secoli. Il ricorrere a varietà proprie di altre regioni costituisce sempre un rischio: in alcune zone dove sono stati introdotti vitigni impropri per la ricerca di una maggiore produttività non sempre si sono ottenuti risultati validi. I fattori che influenzano maggiormente la qualità dell’uva sono: il vitigno, il clima e il terreno. Per un’uva di buona qualità viene richiesto di norma un clima mite, di media collina, ventilato, senza ristagno di umidità primaverile o estiva, con giusto grado di insolazione e di piovosità.
I terreni migliori per i vigneti — dicono i tecnici — sono quelli di medio impasto, fertili, di composizione equilibrata, ricchi di potassio, bene esposti, possibilmente in leggero declivio. Riassumendo, si può dire che il vino buono deriva dall’uva sana e adatta a quel tipo di vino (o da una mescolanza di uve, sempre sane). Quest’uva ideale, ripetiamo, è in funzione di un trinomio: vitigno, clima e terreno.

L’uva e il vino: La coltivazione

La vite può moltiplicarsi per via gamica — il seme — o per via agamica, cioè con talee e propaggini. Non si usa la moltiplicazione per semi se non per produrre nuove varietà e nuovi ibridi. In tutti gli altri casi si utilizzano le talee o barbatelle, che sono piante giovanissime fornite di radici fittizie a forma di barba. Si chiamano anche margotte di vite e ci sono appositi vivai specializzati per i rifornimenti. Questi appezzamenti di terra si chiamano barbatellai ed esercitano una funzione importante nel campo vitivinicolo.
Generalmente come talea viene utilizzato un pezzo di tralcio di un anno, con almeno due gemme. A uno o due anni dall’innesto, le barbatelle o pianticine vengono trapiantate nel vigneto, preferibilmente in autunno, a una distanza che varia secondo la forma di allevamento. Le colture più diffuse sono a spalliera, cioè sorrette da un’intelaiatura, e a pergolato. In questo caso, l’impalcatura a sostegno delle viti è costituita da due file di pali, o colonnette di cemento, congiunti al vertice da elementi orizzontali ad un’altezza dal suolo tale da consentire il passaggio di addetti alla lavorazione o all’immutabile rito della vendemmia. La coltura ad alberello, così tradizionale nell’Italia centro-meridionale, cioè con piante singole potate a forma di albero, sempre di bassa statura, va gradatamente scomparendo anche in Puglia, per far posto a sistemi più aggiornati.
Nei vigneti specializzati le viti variano come numero da 2000 a 10000. Per i sistemi si tiene conto dei terreni, dei climi e delle pendenze. Si cerca di rendere stabili più che si può le attrezzature perché i costi sono elevati e il materiale facilmente deteriorabile. Anche i pittoreschi vigneti con le viti maritate agli alberi (aceri o olmi), tradizionali nella zona di produzione del Lambrusco e in Campania, vanno gradatamente scomparendo e ne prendono il posto i sistemi tipo Guyot, Sylvoz e altri, sempre di impronta specialistica.
II terreno, nel caso di nuovi impianti, va preparato a volte con profondi scassi, o sbancamenti di rocce. Occorre una concimazione frequente ed anche l’irrigazione. Annualmente la vite richiede almeno tre lavorazioni del terreno: una più profonda nel periodo di riposo, una media in primavera, una superficiale nel mese di agosto. Tralasciando le altre operazioni secondarie relative al terreno, sono invece di grande importanza i trattamenti antiparassitari contro le principali malattie crittogamiche quali l’oidio e la peronospora.

L’uva e il vino: La vendemmia

La conclusione delle fatiche che durano ininterrottamente tutto l’anno si ha con la vendemmia. Questa pittoresca operazione di raccolta dell’uva che ha stimolato tante fantasie descrittive e pittoriche, ma per la quale è difficile reclutare operatori volonterosi e capaci (anche in considerazione del fatto che si conclude in brevi termini), può essere fatta in un arco di tempo che varia tra i mesi di luglio e ottobre, più raramente novembre. In genere si raccolgono prima le uve bianche, per gran parte delle quali viene consigliato ai vignaioli di non oltrepassare il limite di giusta maturazione, caso mai di anticiparlo.
Le uve nere si vendemmiano quasi sempre nel mese di ottobre. Le prime uve si ottengono di solito nell’Italia meridionale, ma certi Pinot vengono vendemmiati in agosto anche in settentrione. Uve tardive possono essere considerate quelle dei vitigni Sangiovese e Montepulciano delle Marche e degli Abruzzi; con l’Aglianico della Basilicata si va a novembre. Diverse volte si vendemmia in novembre anche nella zona dei Nebbioli piemontesi e dei Barbaresco, in provincia di Cuneo. Può essere considerato un vantaggio cogliere le prime nebbie, a patto che l’umidità non sia troppo elevata e segua subito dopo il sole.
Con la specializzazione e il progressivo abbandono delle colture miste, tipo vite e olivo, la produzione di uva per ettaro é generalmente, aumentata. I disciplinari che regolano la produzione dei vini Doc (denominazione di origine controllata) però stabiliscono delle limitazioni precise. Per il Barbaresco e per il Barolo, ad esempio, sono ammesse produzioni non superiori, in ogni caso, a 80 quintali per ettaro. Per il Chianti 125 quintali per ettaro, per il Chianti Classico 115 quintali, per il Frascati 130 quintali, per l’Ischia bianco o rosso 100 quintali. Alcune rese sono state criticate perché ritenute troppo abbondanti, ma in genere i risultati delle vendemmie sono sempre inferiori al massimo, che si ottiene solo nelle annate estremamente favorevoli. Come abbiamo detto, la conclusione annuale delle lunghe fatiche nella vigna é costituita dalla vendemmia. Valutare il momento di cogliere l’uva non è facile, anche perché possono incombere sfavorevoli e imprevisti eventi meteorologici. Ogni volta sorgono dubbi e paure, il vignaiolo scruta sovente il cielo con molta trepidazione. Talvolta si pente di avere anticipato l’operazione di raccolta.
L’uva va vendemmiata nel momento della sua giusta maturazione fisiologica. L’epoca può essere leggermente spostata a seconda delle condizioni atmosferiche o del tipo di vino che si vuole ottenere. Occorre seguire scrupolosamente la maturazione fino al momento in cui l’acino da verde diventa giallognolo o giallo per le uve bianche e violaceo per le rosse; contemporaneamente l’acino aumenta anche di volume. Si verifica, in questa fase, il fenomeno più importante, la formazione di zuccheri; il «tenore zuccherino» viene misurato con appositi strumenti.
Per rendersi conto del grado di maturazione è preferibile non affidarsi al metodo empirico dell’assaggio, ma attendere il responso dei mostimetri e refrattometri dei laboratori gestiti dai consorzi o da altri enti.
La vitivinicoltura moderna non si affida più ai proverbi di stampo contadino, ma agli enotecnici e agli specialisti degli ispettorati agrari. Per i vini bianchi, che necessitano di alta percentuale di acidità, é sempre bene anticipare il raccolto. Specie per le uve Pinot, dalle quali si ricavano gli spumanti, la raccolta anticipata costituisce un fattore determinante. Quando, a causa di piogge persistenti, esiste il timore di uve malsane dalle quali discenderanno vini altrettanto imperfetti, soggetti alla “fioretta” (Mycoderma vini), si raccoglie l’uva anticipatamente per evitare danni maggiori.
Esistono delle regole per la raccolta dell’uva che è bene seguire. Intanto è sconsigliabile staccare i grappoli nelle primissime ore del mattino o subito dopo la pioggia. In questi casi si verifica una diminuzione del tenore zuccherino.
Inoltre, il grappolo a causa dell’umidità risulta più facilmente attaccabile dalle muffe. Molto importante è la «cernita» delle uve che va fatta subito al momento del raccolto. Di solito vengono separate da una parte le uve per il vino «scelto», dall’altra le uve per vini meno pregiati. Vanno scartati decisamente i grappoli intaccati dal marciume perché guastano anche quelli sani e conferiscono, come minimo, cattivi sapori al vino.
Il raccolto più razionale si ottiene impiegando ceste o cassette di legno o di plastica e maneggiando l’uva con molta accuratezza. Specie in colline dai pendii aspri, vengono adoperati bigonci che possono contenere anche 50 chili o più. Non è però conveniente ammassare troppo l’uva.
La raccolta dell’uva fatta con apposite macchine, come si usa comunemente nei vigneti della California, trova molte difficoltà ad essere applicata in Italia. Siamo ancora nella fase sperimentale, tenendo conto che questo sistema non può essere usato nei vigneti impiantati su terreni in notevole pendenza o addirittura scoscesi, come accade ad esempio in Valtellina.
Per le uve di grande pregio, la raccolta meccanizzata risulta totalmente inadatta, trattandosi di un prodotto particolarmente delicato che richiede cure amorose e molte precauzioni nel maneggiarlo.

L’uva e il vino: Come si fa il vino

La prima operazione conseguente alla vendemmia è la pigiatura dell’uva, ossia la riduzione dell’uva in mosto. La pigiatura ha lo scopo di provocare la rottura della buccia e la fuoruscita della polpa dell’acino. Solo alcune piccole aziende di carattere familiare pigiano l’uva con i piedi nudi in vasche rettangolari di legno a un solo fondo o su doppi fondi. Se si pigia su un fondo solo, il mosto va asportato subito affinché non crei ostacoli per l’altra uva. Logicamente, la pigiatura meccanica è considerata il miglior sistema e anche il più economico per una vinificazione razionale. Con i metodi più aggiornati si ottiene subito la separazione del mosto dalle scorie che sono rappresentate dai graspi, dai vinaccioli e dalle bucce, quell’insieme che forma le cosiddette vinacce.
Queste vinacce vengono fatte macerare, per un periodo più o meno lungo, in alcuni tipi di vinificazione unite al mosto nella fase di fermentazione, ma la pratica della separazione delle scorie principali, e cioè i graspi, è ormai entrata nell’uso corrente.
Le pigiatrici sono macchine dotate di una tramoggia nella quale viene immessa l’uva da pigiare. Dalla tramoggia l’uva passa tra due cilindri scanalati i quali, ruotando in senso opposto tra di loro, eseguono un lavoro di schiacciamento degli acini. Il pigiato cade in un cilindro metallico forato che mediante un sistema rotante riesce ad eliminare i graspi che non andranno a fermentare nei tini. La buccia, i vinaccioli e il mosto liquido cadono in un tino sottostante.
Senza addentrarci in spiegazioni troppo particolareggiate, diciamo che i sistemi di diraspatura (senza i graspi) e non diraspatura (con i graspi) presentano i loro vantaggi e svantaggi. La presenza dei graspi, ad esempio, é utile per i vini che si vogliono particolarmente tannici, colorati o aromatici, in quanto essi facilitano la solubilizzazione del tannino; ne viene anche accelerata la fermentazione stessa.

La fermentazione 

Questa complessa operazione per trasformare il mosto in vino si conosceva fino dal tempo degli Assiri, ma furono i Romani a perfezionarla. Fermentazione viene dal latino fervére e significa bollire. Infatti assomiglia molto al sobbollimento di un liquido. Quello ottenuto dalla pigiatura si presenta torbido, denso, appiccicaticcio, di sapore dolce e nello stesso tempo acido. Viene posto a fermentare negli appositi tini, dove viene lasciato per un certo periodo di tempo. Non bisogna abbandonare il mosto in fermentazione in balia di se stesso: si potrebbero ottenere risultati disastrosi.
Il mosto è composto da una parte liquida e da una parte solida (le bucce e i vinaccioli). Queste parti solide, avendo peso specifico inferiore al liquido, tendono a salire in superficie e quindi a separarsi dal liquido. La loro risalita é facilitata dall’anidride carbonica che rigonfia le parti solide. La vinaccia che risale in superficie e che si separa dal liquido prende il nome di «cappello». A contatto con l’aria il cappello si ossida e non bisogna permettere che questo si verifichi. Ecco perché si dice che la vinificazione, di solito, avviene a «cappello sommerso». Per affondare questo cappello ci si serve di bastoni muniti di pioli che si chiamano “follatori” oppure si dispone sulla parte superiore del tino un graticcio di listelli di legno. Nelle grandi vasche di fermentazione si usa il sistema del cappello emerso perché il recipiente ha un soffitto, quindi non è scoperto.
La fermentazione alcolica viene divisa in due periodi: fermentazione tumultuosa e fermentazione lenta. La prima fa seguito alla pigiatura dell’uva e va fino alla svinatura; la «lenta» prosegue poi fino alla completa trasformazione degli zuccheri in alcol.
La svinatura è l’operazione che permette di separare le vinacce dal mosto fermentato che si avvia a diventare vino; il prodotto che se ne i ottiene viene chiamato «vino fiore».

I classici sistemi di vinificazione


In bianco – Questo sistema è generalmente usato per i bianchi, per i quali si richiede un leggero colore, gusto liscio, delicato, senza tannicità. Principalmente consiste nella separazione immediata, dopo la pigiatura, delle vinacce dal mosto, il quale comincia a fermentare soltanto dopo tale separazione.
In rosso – Questo sistema consiste nel far fermentare il mosto di uve nere a contatto delle vinacce per alcuni giorni, durante i quali una certa percentuale di zucchero subisce la trasformazione in alcol. La durata del contatto dipende dalla qualità dell’uva e dal tipo di vino da produrre, nonché da fattori ambientali.
In rosato – Consiste nella fermentazione in bianco-rosato di mosti ricavati da uve nere. Questo sta a significare che il vino rosato non deriva dal semplice taglio fra vini bianchi e rossi, sistema troppo semplicistico, ma da una scrupolosa e appropriata tecnica di lavorazione di determinate uve. Il «cerasuolo, ad esempio, è un vino con qualità intermedie fra il rosato e il rosso.

Cure al vino nuovo


Sono molto importanti e consistono nelle colmature, nei travasi e nei controlli analitici. Come ho già accennato, la presenza di aria sulla superficie del vino è dannosa, per cui va ripristinato il massimo livello con aggiunta di altro vino sicuramente sano e di buona qualità. Talvolta è necessario ricorrere ad uno strato di vaselina pura per preservare il vino dal contatto con l’aria.
Travasi – Questi passaggi del vino da un recipiente all’altro vanno eseguiti con molta cura. ll primo avviene a fermentazione ultimata: il vino viene «svisato» e posto nelle botti. E’ ancora molto torbido, però grazie all’abbassamento della temperatura ambiente (d’inverno) e alla quiete, deposita le sostanze che ha ancora in sospensione e che provengono dalle parti solide dell’uva.
I vini rossi di buona costituzione, ricchi tannino, diventano presto limpidissimi. Si rende allora necessario il travaso in altre botti da effettuarsi a dicembre; un altro segue a marzo; poi un altro ancora a settembre quando si approssima o è già in corso un’altra vendemmia.
Per i vini da invecchiamento, negli anni successivi, é sufficiente un solo travaso all’anno. Al termine di queste operazioni di chiarificazione e precipitazione spontanee, il vino risulta più stabile e brillante, a meno che non siano nel frattempo intervenute azioni batteriche nocive. Va tenuto presente che il miglior vino é quello che presenta un minor numero di scorie o di residui superflui.
Va seguita con attenzione l’evaporazione che si verifica nelle botti, attraverso i pori del legno. Occorre procedere alla colmatura delle botti, almeno una volta alla settimana, con vino sano. Per questa operazione si segue il calo di appositi bicchieri posti sulla sommità della botte, o con altri sistemi, che segnalano i mutamenti avvenuti.
Intorbidamento – Un inconveniente cui quasi tutti i vini vanno più o meno soggetti è l’intorbidamento, causato dall’insolubilità del cremortartaro.
Un rimedio naturale é rappresentato dall’abbassarsi della temperatura, tramite il freddo invernale.
Ma esistono anche altri sistemi maggiormente tecnici perché gli sbalzi termici troppo bruschi possono danneggiare il vino.
Una filtrazione accurata si ottiene con il passaggio del vino attraverso strati filtranti, composti con tela, cellulosa, amianto in fibre. Logicamente con i travasi la chiarificazione avviene spontaneamente tramite la forza di gravità. Tuttavia vari agenti esterni possono favorirla, oppure ostacolarla, provocando delle coagulazioni e degli intorbidamenti che formeranno egualmente dei depositi, sempre fastidiosi. I bianchi e i vini provenienti da uve immature presentano maggiori difficoltà. In tal caso si procede alla chiarificazione dei vini con varie sostanze, come il bianco d’uovo e le gelatine.


L’uva e il vino: I componenti del vino 

Per chi si occupa di vitivinicoltura ed enologia, anche a livello di semplice appassionato, è importante dare almeno uno sguardo alla composizione del vino, per cercare di penetrare i segreti della sua intima struttura. Intanto, poiché il vino deriva dal mosto (che si ricava dall’uva fresca mediante pigiatura, sgrondatura o torchiatura), è evidente che molte sostanze dal mosto passano al vino e qualcuna di esse diminuisce percentualmente mentre altre aumentano.
Che cos’è il vino? Domanda semplice, ma vediamo cosa dice in proposito la legislazione italiana: Il vino è il prodotto della fermentazione alcolica totale o parziale dell’uva fresca ammostata con gradazione alcolica di almeno tre quinti della gradazione complessiva. L’enotecnico potrebbe aggiungere che questa bevanda è una soluzione idroalcolica (vale a dire un composto di acqua e alcol) nella quale si trovano disciolti numerosi componenti acidi, salini, organici, aromatici che a tale soluzione conferiscono particolari proprietà organolettiche e sapori variatissimi.
Sotto l’aspetto più compiutamente chimico, la soluzione idroalcolica é molto complessa ed è formata da numerose specie molecolari, aventi un andamento evolutivo promosso dagli enzimi e portato a compimento dai microrganismi presenti nella sostanza in cui hanno il loro ambiente naturale, che varia a seconda dei rapporti in cui si trovano i suoi componenti e con reazioni diverse a seconda dei trattamenti che il vino ha subito ad opera di coloro che lo producono e lo portano a maturazione.
Probabilmente non esiste un altro alimento tanto complesso per tutte quelle sostanze che si formano durante la fermentazione alcolica, la fermentazione malolattica, le fermentazioni secondarie e durante il periodo di invecchiamento.
Nella sua costituzione sono stati ravvisati oltre duecento elementi, ma si parla di un numero ben superiore, anche se non ancora totalmente definito.
Vediamo di analizzare brevemente la composizione del vino.
Acqua – Considerazioni scherzose a parte, è la principale componente del vino. Si trova nella stessa quantità presente nel mosto, con una percentuale che varia dal 70 all’85 per cento.
Alcol etilico – In ordine di importanza viene subito dopo l’acqua ed è presente in quantitativi che variano dal 4,5 al 19 per cento per i vini fortemente alcolici. Esso deriva dalla fermentazione degli zuccheri presenti nel mosto (glucosio e fruttosio) ad opera dei lieviti. La gradazione alcolica può essere “svolta”: è l’alcol effettivamente contenuto nel vino. La gradazione potenziale fa riferimento all’alcol che si svilupperà se si farà fermentare lo zucchero indecomposto ancora contenuto nel vino. La gradazione complessiva infine altro non è che la somma di quella svolta e di quella potenziale.
L’alcol etilico ha grande importanza nel vino perché, oltre al “carattere”, conferisce al prodotto un margine di sicurezza contro l’attacco di microbi patogeni che diminuirebbero la sua conservabilità.
Altri alcoli – Sia pure presenti in modesta quantità, hanno la loro importanza in quanto concorrono durante l’invecchiamento alla formazione degli esteri, sostanze che influiscono sullo sviluppo degli aromi. Citiamo —oltre all’alcol metilico — il propilico, il butilico e l’amilico, nonché la glicerina, alcol trivalen-te: questa conferisce al vino morbidezza.
Acidi – L’insieme degli acidi organici e inorganici costituisce l’acidità, molto importante dal punto di vista della degustazione (viene subito dopo gli alcoli).
L’acido tartarico é quantitativamente il più importante, poi vengono l’acido malico e l’acido citrico, già presenti. nel mosto. L’acido succinico e il lattico derivano invece dal processo fermentativo.
Tra gli acidi volatili il più importante é l’acido acetico, che però deve essere moderatamente presente nei vini provenienti da uve sane. L’insieme dell’acido acetico e dell’acido lattico, nonché degli esteri volatili e dell’aldeide, compongono la cosiddetta «acidità volatile», a volatile (perché si separa mediante distillazione) insieme all’acidità fissa (che è l’insieme degli acidi organici contenuti nell’uva) forma l’acidità totale, da cui dipendono la salute, la freschezza e la buona conservazione del vino.
Secondo la legislazione italiana, i vini per il consumo diretto non debbono avere un contenuto in acidi volatili che superi un decimo della gradazione alcolica.
Minerali – Oltre agli acidi organici, il vino contiene gli anioni degli acidi minerali (come il solforico, il cloridrico, il fosforico, il salicilico e altri) che sono totalmente combinati, ovvero salificati, dai cationi (potassio, calcio, magnesio, sodio, alluminio, ferro, manganese, rame, arsenico), tutti elementi che la vite assorbe dal terreno e che ritroviamo nel vino. Tali componenti possono variare da poche decine di milligrammi a 300 o 400 milligrammi per litro.
Zuccheri – Nei vini secchi rimangono pochissime tracce di zuccheri dopo la fermentazione alcolica. Comunque essi non mancano mai e contribuiscono a rendere il gusto più o meno morbido. Si parla di vini amabili quando gli zuccheri presenti nel vino sono nell’ordine dall’1 al 3 per cento. Quantità maggiori danno luogo ai vini dolci. I filtrati dolci possono arrivare anche a 70 grammi di zucchero per litro. Oltre al glucosio e fruttosio, sono presenti anche altri zuccheri speciali.
Sostanze coloranti – Possono essere più o me-‘ no presenti nel vino non solo in dipendenza di ciò che è contenuto nella buccia dell’uva, ma anche del sistema di vinificazione.
Le uve bianche sono colorate dai flavoni che conferiscono ai vini quel colore giallo più meno accentuato. Nelle uve nere o rosse oltre ai flavoni sono presenti gli antociani, sostanze di colore che variano tra il rosso, il violaceo e l’azzurro. Tra queste sostanze si distingue l’enina, che si trova nella buccia dell’acino.
Dalla quantità dei pigmenti presenti nell’uva e nel vino deriva l’intensità colorante degli stessi e la gamma di tonalità dei vini bianchi e rossi. In taluni vini bianchi, la clorofilla dona tonalità verdoline.
Molto vicine alle sostanze coloranti sono le tanniche, il cui principale componente é il tannino; la sua presenza, a seconda della quantità, fa giudicare il vino aspro, astringente, allappante e ruvido. Le bucce contengono parecchio tannino, in proporzione da l a 5 in confronto alle bianche. Poiché questo composto sarebbe un calmante del sistema nervoso, si dice che i vini rossi sono più adatti dei bianchi per le persone che hanno un sistema nervoso scosso.
Composti organici – Nel vino sono contenuti parecchi composti organici di natura complessa, che influenzano i caratteri organolettici accrescendone il valore nutritivo: sostanze azotate, mucillagginose, gommose e pectiche. Queste ultime sono degli idrati di carbonio che si trovano nel mosto allo stato colloidale e vengono anche chiamati colloidi protettori, in quanto ostacolano altre precipitazioni nocive. I protidi o sostanze azotate si trovano nel mosto in quantità minime, tuttavia la loro presenza é necessaria in quanto sono gli alimenti perì lieviti della fermentazione alcolica. Queste sostanze allo stato colloidale contribuiscono poi, in seguito a fermentazioni secondarie, a conferire il caratteristico bouquet al vino.
Costante è la presenza dei gas: di essi l’anidride carbonica è uno dei più importanti fra quelli che si sviluppano durante la fermentazione alcolica. Ogni successiva rifermentazione, possibile nei vini aventi dello zucchero residuo, porta alla creazione di nuova anidride carbonica; lo stesso avviene nel corso della fermentazione malolattica.
L’ossigeno è indispensabile per la moltiplicazione dei lieviti nella prima fase della fermentazione alcolica ed è necessario all’affinamento dei vini pregiati.
E’ con questo mezzo che avviene la conservazione per lunghi anni nei recipienti di legno. Un gas che si manifesta sovente nei vini e che può conferire un cattivo odore di uova fradice è l’idrogeno solforato. II difetto viene elimina to mediante l’aerazione. E’ infine presente l’azoto, che però resta inerte e non avvertibile alla degustazione.
I processi enzimatici, quali l’invertasi, entrano nei processi di scomposizione del saccarosio in glucosio e fruttosio. Infine, parte delle vitamine contenute nell’uva si ritrovano nel vino. La vitamina C ha tra l’altro un effetto antiossidante. Siccome le vitamine sono sensibili ai troppo bruschi sbalzi di temperatura, quando i mette in opera la pastorizzazione del vino i solito eseguita per rendere più stabili vini i consumo corrente restano distrutte.

Analisi chimica 


 Ha lo scopo di determinare la quantità dei vari componenti del vino. Ciò può dare utili indicazioni, sia per giudicare il suo stato di evoluzione che per stabilire i trattamenti e le cure eventuali cui sottoporlo. Le analisi compiute di solito (a parte altre indagini più complesse) riguardano la determinazione dell’alcol, degli acidi fissi e volatili, degli zuccheri e infine delle sostanze estrattive.
La determinazione dell’alcol si effettua per mezzo di apparecchi chiamati ebulliometri.
L’acidità totale viene espressa in acido tartarico (tot grammi per litro) anche se a determinarla concorrono gli innumerevoli acidi presenti nel vino, sia in forma libera sia salificati. Servendosi della stessa reazione chimica svolta per determinare l’acidità totale, con gli esami di laboratorio si può stabilire il quantitativo di acidi volatili, che vengono separati l dagli acidi fissi mediante un flusso di vapore acqueo. Sempre attraverso l’analisi chimica si può determinare la quantità di zuccheri, ancora espressa in grammi per litro.
Per estratto secco si intende l’insieme di quelle sostanze non volatili che restano dopo che il vino è stato fatto evaporare. Esso comprende quindi gli acidi fissi, le sostanze minerali assorbite dalla vite attraverso il terreno, quali gli acidi inorganici salificati con potassio, magnesio, calcio e sodio; la glicerina, gli zuccheri, gli amidi, le pectine, le gomme, mucillaggini, sostanze azotate e coloranti.
Questo complesso che costituisce il «corpo del vino» varia da un minimo di 15 a un massimo di 30 grammi per litro, eccezion fatta per lo zucchero. Sono due i sistemi di determinazione: diretto e indiretto. Il primo mediante evaporazione e pesatura dei residui, il secondo tramite un rapporto tra la densità del vino e quella del suo distillato alcolico.


Grado alcolico 


 Il tenore di alcol svolto nei vini asciutti (completamente fermentati) e il tenore dell’alcol complessivo nei vini amabili servono come base nelle contrattazioni per stabilire il prezzo, in quanto si suppone che ad alte percentuali alcoliche corrispondano vini più sani e più buoni. La gradazione legale minima per i vini immessi ai consumo è fissata dalla legge in 10 gradi. Per i vini Doc la gradazione legale è stabilita dal disciplinare di produzione. Per determinare i pregi dei grandi vini, oltre al fattore alcolico, intervengono valori assai più importanti. Per ottenere il prezzo di un ettolitro di vino si moltiplica il prezzo per grado per il numero dei gradi riscontrati nel vino. Esempio: vino da 11 gradi, moltiplicati per lire al grado uguale a lire 44 000 all’ettolitro.


L’uva e il vino: Malattie del vino

I progressi tecnologici compiuti in ogni campo, e naturalmente anche nell’enologia, escludono praticamente la presenza sul mercato di vini malati, come invece accadeva un tempo, quando il vino era commerciato sfuso, in damigiane e bottiglioni, non sempre ben tappati. Vale comunque la pena di conoscere malattie e difetti principali dei vini onde premunirsi in certi casi, per fortuna non frequenti. Quando si manifestano, le alterazioni sono per lo più di origine microbica, poiché taluni microrganismi trovano condizioni favorevoli per il loro sviluppo.
«Fioretta» – E una delle malattie più comuni, causata dalla trasformazione dell’alcol etilico. Il vino colpito presenta sulla superficie un velo biancastro molto fragile, che poi assume un colore grigiastro che tende a salire lungo le pareti del recipiente, sia esso botte, fiasco o bottiglia. A livello familiare può capitare quando si infiasca in proprio e appare questo strato sul collo della damigiana, o si notano puntini biancastri affioranti sulla superficie. Non è un difetto grave, si può eliminare con filtrazioni. In gergo tecnico per far scomparire la fioretta si procede ad una scolmatura.
Acescenza o spunto – L’alterazione può essere più o meno grave e in questo caso il vino sa decisamente di aceto, per cui bisogna evitare di berlo: lo stesso palato mette in allarme il consumatore. Lo «spunto corrisponde alla fase iniziale, in uno stadio più avanzato si determina l’acescenza cioè si sviluppa quelMycoderma acetiche fu già isolato dal grande Pasteur. Il difetto è praticamente ineliminabile. Si verifica, in genere, quando i vini sono di gradazione alcolica troppo bassa e mancano di stabilità.
Agrodolce o fermentazione mannitica – Si sviluppa in certi casi nei vini giovani, specie in quelli di tipo amabile, con basso valore di acidità: il vino presenta delle particelle in sospensione e tende ad intorbidarsi.
Presenta inoltre un sapore dolciastro, come un frutto che abbia superato i limiti di maturazione, con aggiunta di una punta fastidiosamente acida. Il fenomeno è provocato da microbi che trasformano gli zuccheri del vino in mannite. I vini scrupolosamente lavorati non presentano mai questo inconveniente; in fase di produzione il difetto viene eliminato con aggiunta di anidride solforosa. Tale ag-giunta va calibrata scrupolosamente; altrimenti quando il consumatore beve il vino può andare incontro a cefalee.
II girato è una malattia che si sviluppa di solito nei mesi estivi, con il gran caldo, e l’insorgere del fenomeno è caratterizzato dallo sviluppo di bollicine di anidride carbonica. Il vino si intorbida e si scolora e prende un odore poco gradevole, come se fosse invecchiato precocemente. L’inconveniente é fra i più gravi: se affrontato dal produttore di vino all’inizio, può essere rimediato con la pastorizzazione del vino e con una filtrazione molto accurata; se si verifica nella cantina del privato, il vino è da buttare.
II filante o grassume si verifica particolarmente a carico dei vini dolci che diventano, in questa circostanza, torbidi ed oleosi.
L’amaro è una malattia che colpisce i vini rossi nella fase di invecchiamento. Si verificano i seguenti sintomi: intorbidazione, attenuazione del colore, sapore decisamente amaro. I produttori curano questi inconvenienti con carboni vegetali attivi.
I carboni — diciamolo per inciso — sono permessi dalla legge. Riescono quasi sempre ad eliminare gli odori estranei.
Gli oli enologici (meglio dell’olio d’oliva che si usava un tempo) sono parimenti utili per proteggere la superficie del vino dal contatto con l’aria in botti, damigiane e fiaschi. Va precisato che sia i carboni sia gli oli sono insolubili nel vino e quindi non possono produrre alterazioni di sorta, né del gusto, né dell’aroma. Questo discorso vale per tutti gli altri additivi e coadiuvanti, tipo colle, gelatine o minerali silicei, tutti prodotti pure innocui e insolubili. Se ben impiegati, giovano al vino e ne perfezionano le caratteristiche.

I vitigni fondamentali 

Vitigno è la varietà di vite coltivata: questa definizione individua la stirpe delle uve, la loro più o meno lontana provenienza.
Esistono vitigni comuni e vitigni nobili, capaci di trasmettere al vino le caratteristiche originarie per un periodo di tempo che facilmente varca i secoli.
Trapiantati da una terra all’altra, i vitigni possono mutare le loro caratteristiche, anche se non di molto in quanto portano sempre appresso i caratteri fondamentali della loro origine. Ci sembra opportuno dare al lettore una panoramica dei principali vitigni esistenti, conoscenza utile per la successiva individuazione dei vini. Ricordiamo che la composizione del grappolo varia, col variare del vitigno, in lunghezza e peso, così come variano i graspi, la buccia e i vinaccioli. Variano, naturalmente, anche le sostanze contenute nelle varie parti e la loro funzione al momento della vinificazione.
Aglianico
Antichissimo vitigno diffuso in Campania e in Basilicata, chiamato anche Gesualdo, Ellenico, Uva nera. Presenta un grappolo di compattezza media e acino regolare di colore blu. Dall’Aglianico deriva il vino omonimo, un rosso tipico dell’Italia meridionale. Con termine vezzeggiativo, specie nei Campi Flegrei, questo vino è detto anche Aglianichello
Albana
Tipico della fascia romagnola, in provincia di Ravenna, Forlì e Bologna (in parte).
Presenta un grappolo di colore dorato e di forma allungata.
Aleatico
Diffuso in varie regioni, specie in Puglia, è originario della Toscana.
Presenta un grappolo medio come formato, acino rotondo di colore blu scuro; sapore caratteristico di moscato dolce. Vitigno molto resistente alle avversità atmosferiche, di produzione costante. Dà origine ad alcuni fra i migliori vini liquorosi italiani, tra i quali l’Aleatico dell’Elba (Portoferraio) e l’Aleatico di Gradoli (Viterbo).
Ansonica
Presenta un grappolo dal colore dorato, con formato piuttosto grosso. Sicuramente di origine preromana, di probabile provenienza siciliana, con parecchi sinonimi, come Inzolia, Zolia bianca, Ansolica, dà origine ai vini bianchi prodotti in Toscana, nel Grossetano.
Barbera
Uno fra i vitigni più noti in Italia, molto diffuso in Piemonte.
Presenta generalmente un grappolo piramidale di colore blu intenso, con buccia pruinosa, dalle sfumature grigie. Le principali suddivisioni dell’uva Barbera sono: Barbera grossa, Barbera fine, Barbera dolce. Ne esce un vino da pasto superiore dal colore rosso scuro e dall’accentuato odore vinoso, con sapore asciutto e austero.
Bianco d’Alessano
Tipico delle Murge pugliesi, produce un’uva di colore giallo tendente al verdognolo.
Entra nella composizione di vari vini, tra cui il pregiato Castel del Monte bianco.
Biancolella
Detto anche Jancolella, è caratteristico dei terreni vulcanici dell’isola d’Ischia. ln Corsica viene chiamato Petit Blanche. Il grappolo è allungato, gli acini tendono al verdognolo, La produzione non è molto abbondante, ma il vino è considerato uno dei migliori da pesce da antipasto. È vinificato a sé oppure entra nella composizione dell’Ischia bianco.
Bombino bianco
Molto diffuso nelle Puglie, assomiglia in parte al Trebbiano. Dalle sue uve si ricavano vini adatti per la produzione del vermut. Presenta un grappolo piuttosto grande, di colore dorato, tendente al giallastro. È detto anche Calpolese e Trebbiano di Teramo.
Bombino nero 
Di antichissima origine, ha grappolo grosso e piuttosto compatto, acino a sfera di colore blu. Il Bombino entra nell’uvaggio di alcuni vini rossi pugliesi.
Bonarda piemontese
Già noto nel Settecento sui colli torinesi, ha grappolo piuttosto grande, acino medio rotondo con buccia nero-violacea. L’uva è detta anche Balsamina, Bonarda di Chieri e Bonarda di Gattinara.
In alcuni luoghi dell’Oltrepò (specie a Casteggio) la Bonarda vinificata da sola offre ottimi risultati.
Brachetto
Detto anche Bracchetto, è tipico delle province di Alessandria e Asti. Presenta un grappolo non molto grande, con acino medio, di sapore succoso, aromatico e colore violaceo scuro. I l più noto dei vini che ne derivano è il Brachetto d’Acqui, da dessert, in versione naturale e spumante. Ha un colore rosso rubino tendente al rosato.
Brunello di Montalcino
Di origine toscana, è coltivato a Montalcino (Siena), ha grappolo di grandezza media, di forma cilindrica, compatto.
L’acino regolare e rotondo è rivestito da una buccia di colore nero violaceo, piuttosto consistente e pruinosa. La produzione non è abbondante, ma costante.
Il Brunello di Montalcino entra nella cerchia dei più prestigiosi vini italiani: è detto anche Sangiovese grosso.
Cabernet Franc
Importato dalla Francia nel secolo scorso dal conte Manfredo di Sambuy, viene chiamato non solo «franc» (francese) ma anche Gros Cabernet, Grosse Vidure e Cabonet.
Presenta un grappolo a piramide, alato, e acino di colore blu-nero, a polpa dolce e carnosa. È ambientato molto bene in alcune zone del Friuli e del Trentino-Alto Adige, ma lo ritroviamo anche nel Veneto.
Spesso le uve vengono mescolate con il Cabernet Sauvignon.
Cabernet Sauvignon
Imparentato strettamente con il Franc, si distingue per l’acino più piccolo e per una minore produttività. La buccia dell’acino è molto pruinosa, la polpa carnosa e il sapore leggermente erbaceo. È originario del Médoc, vicino a Bordeaux; sono pochi i produttori italiani che vinificano il Cabernet Sauvignon separatamente. I vitigni Cabernet hanno dato origine ai migliori vini rossi americani, quelli delle coste settentrionali della California.
Canaiolo nero
Concorre in buona misura (dal 10 anche fino al 30 per cento) alla composizione dell’uvaggio da cui si ricava il Chianti, insieme al Sangiovese, al Trebbiano e alla Malvasia del Chianti, più altre uve minori.
Il grappolo è di formato medio, la foglia piuttosto piccola. L’acino è regolare con colore violaceo, polpa carnosa. La produzione è abbondante.
Cannonau
Tipico della Sardegna, la sua uva è detta anche Canonau o Cannonadu, Se ne ricava un vino rosso, anche da dessert, di gradazione alcolica elevata, di colore carico e profumo caratteristico. Il grappolo è turgido e serrato, il colore dell’acino nero-violaceo, la polpa sciolta senza sapore particolare. Quasi simile al Cannonau (l’uva è la stessa) è l’Anghelo Rujo; inoltre l’uva Cannonau concorre alla produzione di altri vini di Sardegna, come l’Oliena e l’Ogliastra.
Catarratto bianco comune
Tipico della Sicilia, diffuso anche in altre regioni al Sud, è pure detto Catarratto bianco latino, C. Bertolaro, C. Carteddaro. Il grappolo ha forma classica, armoniosa, piuttosto conica. Il colore della buccia è giallo dorato, la polpa piuttosto succosa.
Il Catarratto entra per il 40 per cento nella produzione del vino Etna bianco e per 1’80 per cento nell’Alcamo o Bianco d’Alcamo.
Cesanese comune
È il nome di due vitigni per uve nere diffusi in alcune zone del Lazio, da cui derivano i vini Cesanese d’Affile, Cesanese di Olevano Romano e Cesanese del Piglio.
L’uva è detta anche Sanguinella o Nero Ferrigno. Il grappolo è cilindrico-conico, l’acino tende all’ovale con colore azzurrino scuro. I vini che se ne ricavano sono fini da pasto; se invecchiati di almeno un anno accompagnano egregiamente gli arrosti.
Ciliegiolo
Detto anche Ciliegino, fa parte dei vitigni minori della Toscana. Il grappolo è grosso, con forma cilindrica allungata. L’acino ben arrotondato ha colore violaceo e polpa piuttosto succosa.
Il Ciliegiolo entra, ma non sempre, tra i vitigni raccomandati per la produzione del Chianti, fino ad un massimo del 5 per cento, ma gli è preferito il Colorino. Viene impiegato anche per il Rosso delle Colline Lucchesi.
Colorino
Tipico della Toscana, ha il grappolo a una o due ali, acino piccolo color violaceo e polpa succosa. Il Colorino è il vitigno complementare maggiormente raccomandato per la produzione del Chianti (entra per un massimo del 5 per cento).
L’uva Colorino viene messa ad appassire su graticci di canne e unita in un secondo tempo al vino già fermentato, dopo essere stata a sua volta fatta fermentare a parte.
Cortese
Questo vitigno è tipico dell’Alto Monferrato (Alessandria), nonché di alcune zone delle province di Asti, Cuneo e dell’Oltrepò Pavese. Il grappolo, di magnifico aspetto, ha l’acino di colore giallo dorato. La buccia è di media consistenza, il sapore della polpa piuttosto neutro.
Dall’uva di questo vitigno derivano il Cortese di Gavi e il Cortese dell’Oltrepò.
Un tipo simile è il Bianco di Castel Tagliolo.
Corvina veronese
Quest’uva nera è molto diffusa nelle plaghe viticole del Veronese. Ha grappolo di media grandezza, piuttosto compatto, acino blu-violetto, polpa sciolta di sapore dolce.
Il vitigno della Corvina veronese concorre in gran parte all’uvaggio per la produzione del Bardolino (fino al 65 per cento). Lo stesso dicasi per il Valpolicella e il Recioto della Valpolicella.
Croatina
Vitigno caratteristico dell’Oltrepò Pavese, dove prende anche il nome di Bonarda, Crosta o Crovattina. Presenta un grappolo di formato notevole, conico, con le ali. La polpa è succosa con sapore non troppo accentuato.
L’uva matura ai primi di ottobre ed offre produzione di solito abbondante.
La Croatina entra nell’uvaggio del Rosso dell’Oltrepò Pavese.
Dolcetto
L’origine del suo nome non ha probabilmente nulla a che fare con il dolce, ma deriverebbe da dosset, che significa dosso collinare. Si caratterizza per il suo grappolo di formato medio, piuttosto allungato, non molto compatto. L’acino ha un colore nero bluastro, con buccia sottile e polpa succosa.
Dalle sue uve vengono i vari Dolcetto: d’Acqui, di Ovada, d’Alba, di Diano d’Alba, delle Langhe Monregalesi, d’Asti, di Dogliani.
Erbaluce
Coltivato in Piemonte, in provincia di Torino e di Vercelli, nella zona dove si produce il vino Erbaluce di Caluso.
Il grappolo, di colore giallo ambrato carico, è di media grandezza, allungato, non troppo compatto. La buccia è sottile, mentre il sapore della polpa è piuttosto neutro.
Forastera
Questo vitigno è stato introdotto con successo nell’isola d’Ischia verso la metà del secolo scorso. Il grappolo è di grandezza media, cilindrico o piramidale, qualche volta alato. La buccia dell’acino presenta colore paglierino con riflessi verdognoli.
L’uva Forastera concorre in misura del 65 per cento alla composizione dell’Ischia bianco; la percentuale scende al 50 per cento nell’Ischia bianco superiore.
Freisa
Questo vitigno è diffuso in alcune zone del Piemonte, tra Torino, Asti e Casale Monferrato, chiamato anche Spannina, Monferrina, Freisa di Chieri. II grappolo è di grandezza media, quasi cilindrico, poco alato. L’acino è molto scuro, quasi bluastro.
Particolare importanza sono tornati ad assumere i vini Freisa d’Asti e Freisa di Chieri che sono stati riconosciuti come vini Doc. Sono prodotti nei tipi secco, amabile e frizzante spumante naturale.
Gaglioppo
Si coltiva principalmente in Calabria, per lo più nel Catanzarese, la zona di produzione del vino Cirò, dove predomina su tutti gli altri vitigni. Si può trovare il Gaglioppo anche nelle Marche, Umbria e Abruzzi. Il grappolo è grande, allungato; l’acino a buccia pruinosa, con riflessi rossastri su fondo nero.
Garganega
Questo vitigno costituisce la base per la produzione di Soave, Gambellara, Bianco di Custoza e Colli Berici. Il grappolo è grande e lungo, facilmente riconoscibile; l’acino di formato medio, la buccia sottile e pruinosa; la polpa è sciolta, dal succo saporito.
Girò
È un tipico vitigno della Sardegna, chiamato anche Girone di Spagna per la sua origine, mentre in provincia di Sassari è chiamato Girone comune. Ha un grappolo piuttosto massiccio e pesante, acino nero violaceo, polpa di sapore zuccherino.
Dalle uve di questo vitigno si ricava il vino Girò di Cagliari nei tipi dolce naturale, secco, liquoroso secco e liquoroso dry.
Si tratta di un vino prevalentemente da dessert, dal colore rosso rubino tenue.
Grechetto
Diffuso prevalentemente in Umbria e in altre zone dell’Italia centro-meridionale, viene anche chiamato Grechetto nostrale, Greco spoletino, Greco bianco di Perugia, Stropoa Volpe e Pulce. Ha infatti un grappolo piuttosto piccolo e acino ovale giallo chiaro. Il Grechetto entra nella produzione di vini assai noti, come l’Orvieto (circa un 10 per cento di media) e il Torgiano bianco (15-35 per cento).
Greco
La principale area di diffusione si trova in provincia di Avellino e di Napoli; è detto anche Greco di Tufo, Greco del Vesuvio e Greco della Torre. Presenta un grappolo armonioso, piuttosto piccolo; acino un po’ irregolare di colore grigio ambrato (nella parte rivolta verso il sole è ricoperto da punteggiature brunastre), polpa succosa e saporita.
Il vino di maggior spicco che deriva da questo vitigno è il Greco di Tufo, un bianco di classe, la cui produzione è molto limitata. Con le a li o orecchie dei grappoli è prodotto anche un vino dolce da dessert, usato spesso per la preparazione degli spumanti.
Grignolino
Questo eccellente e delicato vitigno produce un’uva tipica dell’Astigiano e dell’Alessandrino, dov’è chiamato Barbesino, Verbesino, Balestra e Arlandino. Il grappolo è serrato l’acino piuttosto piccolo, con colore violaceo riflessi rossicci scuri. Dalle uve di questo viti gno, con piccole aggiunte di Freisa, deriva i Grignolino d’Asti, di colore rosso rubino e sapore asciutto, leggermente frizzante.
Grillo
Questo vitigno da uva bianca, probabilmente originario delle Puglie e successivamente importato a Marsala, ha trovato il suo habitat ideale in provincia di Trapani. Il grappolo è di formato medio, con acini un po’ radi. Ha un colore giallo dorato, polpa carnosa e succo incolore.
L’uva Grillo entra nella composizione del Marsala e anche di altri vini siciliani.
Lagrein
Chiamato anche Lagrain o Lagarino, è un vitigno tipico dell’Alto Adige, diffuso anche nel Trentino, originario della Valle Lagarina. Ha grappolo corto a piramide e acino rotondo con buccia consistente e colore blu-nero.
Il vino Lagrein può essere del tipo Lagrein Kretzer (rosato) o Lagrein Dunkel (scuro). Particolarmente pregiato quello prodotto a Gries di Bolzano. Lo scuro ha colore rosso rubino intenso, sapore asciutto un po’ amarognolo, leggermente frizzante.
Lambrusco di Sorbara
Il Lambrusco è uno storico vitigno diffuso in varie zone dell’Emilia. A seconda dei Suoi cloni e delle varie località prende il diversi nomi che vanno distinti.
Il Lambrusco di Sorbara (vitigno e vino che ne discende) è tipico del centro rurale omonimo, in provincia di Modena. il grappolo è di grandezza media, piramidale con un’ala; l’acino rotondetto, la buccia pruinosa di colore blu-nero. fra i Lambruschi, quello di Sorbara, detto anche di Modena, è il più noto. Ha colore rosso rubino o granata di varia intensità, spesso frizzante con spuma rosso vivace più o meno evanescente.
Lambrusco Grasparossa
Prende il suo nome dal graspo di colore vinoso, detto anche Lambrusco di Castelvetro, sua zona di origine. È diffuso in altre località come Castelfranco Emilia e Castelnuovo Rangone. Presenta un grappolo piramidale, con foglia tondeggiante. L’acino è pruinoso, di colore blu-nero, un po’ rado. Il vino che ne deriva ha un colore tendente al rosso scuro ed un profumo vinoso intenso.
Lambrusco Maestri
Quest’altro vitigno della famiglia dei Lambruschi è particolarmente diffuso in provincia di Parma e viene anche chiamato Lambrusco di Spagna. Il grappolo è di formato medio, piuttosto allungato, l’acino piccolo, serrato, la buccia di colore blu-nero. Il vino che ne deriva è rosso rubino più o meno vivace, con profumo che ricorda la viola mammola, sapore gradevole,  caratteristico nel suo genere, e spumeggiante.
Lambrusco Salamino
Detto anche Lambrusco di Santa Croce, deve il suo nome alla forma del grappolo che è piccolo e serrato e ricorda appunto un salamino. È tipico di Santa Croce, una frazione del comune di Carpi. Il vino che ne deriva ha un colore rosso rubino più o meno intenso, odore vinoso intenso, con profumo caratteristico, spuma vivace ed evanescente.
Malvasia bianca di Candia
Per la particolare colorazione che assume il giovane germoglio, è chiamato anche Malvasia rossa o semplicemente Malvasia. Diffuso in varie regioni, dall’Emilia al Sud, ha grappolo grande di forma conica e acino rotondo, con buccia di colore giallo dorato.
Quest’uva bianca entra negli uvaggi di diversi vini: dal Monterosso Val d’Arda (Piacenza) al Torgiano, al Bianco Capena del Lazio.
Malvasia del Chianti
Questo vitigno è coltivato nel Chianti da molti secoli; è chiamato anche Malvasia toscana o Malvasia bianca lunga: il grappolo è di forma molto allungata, piuttosto grande e compatto. Ha acino medio o piccolo, sferico, di colore tra il verdognolo e il paglierino dorato. L’uva di questo vitigno entra fra quelle fondamentali per l’uvaggio del Chianti. La sua percentuale può variare fra il 10 e il 30 per cento; attualmente si tende a diminuire l’apporto di Malvasia per ottenere dei Chianti più tipici.
Malvasia del Lazio
Vien detta anche Malvasia puntinata per l’acino cosparso di punteggiature e macchie grigie e marrone. Il grappolo, di forma conica, e l’acino sono di media grandezza. Altri sinonimi di questo vitigno: Malvasia gentile o Malvasia nostrale, ln molti vini bianchi laziali (Frascati, Marino, Colli Albani e altri) troviamo impiegata questa tipica Malvasia.
Malvasia di Sardegna
L’uva è chiamata sul posto anche Malvagia o Malmazia. I l grappolo è di grandezza media, la foglia quintolobata. L’acino, di media grandezza, ha colore giallo dorato e polpa sciolta. Dal vitigno Malvasia di Sardegna si ottiene il Malvasia di Cagliari, che è un bianco con due versioni: dolce naturale o secco, oppure in versione dolce liquoroso.
Malvasia istriana
Tutte le Malvasie sono originarie della omonima località greca, così come questa istriana coltivata sui Colli Orientali del Friuli e nel Collio Goriziano. Viene chiamata anche Malvasia bianca. Il grappolo, abbastanza compatto, è lungo circa 15 centimetri. L’acino normale presenta una buccia di colore verde giallastro. Da questo vitigno pregiato si ricava un vino assai fine da antipasti e da pesce denominato Collio Goriziano Malvasia o Collio Malvasia. Un vino simile, un po’ meno pregiato, porta la denominazione Isonzo Malvasia istriana.
Marzemino
Detto anche Marzamino dal nome del villaggio della Carniola iugoslava, Marzimin, questo vitigno ha trovato l’ambiente idoneo nel Trentino, specie a Isera, vicino a Rovereto. È chiamato anche Marzemino gentile o di Isera. Viene coltivato inoltre in Lombardia, nei dintorni dei laghi di Garda e Iseo, così come in provincia di Treviso. Il grappolo è di forma allungata, l’acino di colore blu-nero, piuttosto turgido e serrato. Da questo vitigno si ricava il Marzemino Trentino, dal colore rosso rubino intenso, dal caratteristico profumo erbaceo. È un vino gradevolissimo con pollame, formaggi, arrosti.
Merlot
Questo vitigno è stato importato in Italia dalla Francia e più propriamente dal Bordolese, sua zona di origine. L’uva si è diffusa in varie zone dell’Italia settentrionale: Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli, Collio Goriziano. Ha dato buoni risultati di ambientamento anche nell’Italia centro-meridionale. Il grappolo del Merlot è di formato medio, con acino rotondo di colore blu-nero, polpa tenera e sapore tendente al dolce.
Fra i vini ricordiamo: il Merlot del Trentino, i l Merlot dell’Alto Adige. Entrambi hanno caratteristiche simili, e cioè colore rosso rubino, profumo caratteristico, sapore secco, pieno e gradevole, lievemente erbaceo. Inoltre ricordiamo il Merlot del Piave, di Pramaggiore, delle Grave del Friuli, dei Colli Orientali Friula ni, del Collio, dell’Isonzo, di Aquileia e di Latisana. Nel Lazio si produce il Merlot di Aprilia.
Molinara
Da questo vitigno scaturisce un’uva rossa così chiamata per la pruina che sembra infarinare gli acini, come uscissero da un mulino. È chiamata anche Rossara, Rossanella, Solà. È un’uva tipica veronese che concorre (in mag. gior misura) all’uvaggio del vino Bardolino, del Valpolicella e del Recioto della Valpolicella. Il grappolo ha forma piramidale o anche cilindrica, di media grandezza. L’acino rotondo presenta una buccia di color rosso violaceo chiaro.
Monica
Questo vitigno è coltivato in Sardegna, soprattutto nel Cagliaritano. Viene chiamato anche Monaca o Passale. I l grappolo è grande e irregolare, gli acini sono serrati. La buccia è di colore nero o nero violaceo, la polpa piuttosto tenera.
L’uva è adatta per la vinificazione, ma può essere usata anche come uva da tavola.
Montepulciano
I l vitigno è coltivato nell’Italia centro-meridionale, soprattutto nelle Marche e nell’Abruzzo. Prende il nome dall’omonima cittadina in provincia di Siena. Pur avendo punti di somiglianza con il Sangiovese o Sangioveto, ne differisce. Il grappolo è di media grandezza, serrato. L’uva ha acini ovali, con buccia nera violacea e polpa rosea. La produzione è diseguale da annata ad annata, anche a parità di condizioni climatiche.
Il vino marchigiano Rosso Conero deriva dal vitigno Montepulciano, con il concorso (non superiore al 15 per cento) di Sangiovese. Anche il Rosso Piceno si avvale, per il 40 per cento, dell’apporto di Montepulciano.
Il vitigno entra in misura preponderante nella composizione del Montepulciano d’Abruzzo e del Cerasuolo d’Abruzzo, ottenuto con una vinificazione in bianco di uve Montepulciano. Il vino che si ricava da queste uve in genere presenta colore rosso granata con riflessi violacei. Ha sapore pieno, vinoso e sapido.
Moscato bianco
Sotto il nome di moscato sono raccolti un gran numero di vitigni con uve di vario colore, da vino o da tavola, dotate di un caratteristico aroma muschiato che si trasmette ai relativi vini. Fra le qualità più pregiate di moscato va classificato il Moscato bianco o d’Asti, molto coltivato in varie zone del Piemonte e particolarmente nel Monferrato. Pregio elevato raggiunge il Moscato di Canelli, con uva bianco ambrata, dolcissima, usata per la vinificazio ne, ma anche a tavola.
Il grappolo del Moscato bianco è compatto, di grandezza media; l’acino rotondo presenta un colore giallo dorato e anche ambrato nella parte esposta al sole.
Fra i moscati, che sono molto numerosi e quasi tutti pregiati, ricordiamo: il Moscato dell’Oltrepò Pavese che viene in gran parte spumantizzato, come l’Asti Spumante; il Moscato del Trentino; il Moscato dei Colli Euganei; il Moscato di Trani; il Moscato dell’Elba; il Moscato di Calabria; il Moscato di Siracusa; il Moscato di Noto; il Moscato di Pantelleria; il Moscato di Cagliari. Sono tutti vini di colore giallo più o meno dorato, naturalmente spumeggianti, di sapore in genere dolce e profumo più o meno intensamente aromatico.
Müller-Thurgau
Questo particolare vitigno, presente in alcune zone dell’Italia settentrionale (Trentino-Alto Adige, Oltrepò Pavese, Colli Orientali Friulani), è stato ottenuto con incroci di Riesling e di Sylvaner. Ha un grappölo di formato piccolo, acini radi di colore giallo verdognolo con riflessi rosati. La polpa è succosa, di sapore leggermente aromatico. Il vino bianco che se ne ricava per alcune caratteristiche assomiglia al Riesling, per altre al Sylvaner. È un vino fine e raro, da antipasti e da pesce. I maggiori quantitativi di Müller-Thurgau in Italia si ottengono nel Trentino, specie nella Val di Cembra.
Nasco
Questo vitigno è fra i più antichi della Sardegna, dove è chiamato anche Nasca. Ha grappolo di media grandezza, semiserrato e acini rotondi, di colore giallo dorato, screziati di marrone. I l vino Nasco è di colore giallo dorato, con profumo muschiato e aranciato, di sapore delicato con retrogusto amarognolo. Di gradazione alcolica piuttosto alta (14,5-150) è vino da frutta o da dessert.
Nebbiolo
Questo pregiato vitigno piemontese di uva rossa da vino è coltivato in numerose località, ma su limitate estensioni per le particolari esigenze di clima e di terreno e per il fatto di essere piuttosto sensibile all’azione dei parassiti.
Chiamato Nebbieu nell’Albese, nel Vercellese e nel Novarese è detto Spanna. Ha trovato un favorevole habitat in Valtellina dove è indicato come Uva Chiavennasca (da Chiavenna) o Ciuvenasca.
Il grappolo ha grandezza media, talvolta con forma allungata, e acino rotondo con buccia sottile, pruinosa, di colore violaceo scuro.
Tra le zone di coltivazione la più importante è quella compresa nel circondario di Alba, dove si producono i grandi vini piemontesi: Barolo, Barbaresco, Nebbiolo. Anche il Gattinara, il Ghemme, il Sizzano, il Fara, il Boca derivano in tutto o in gran parte dal Nebbiolo.
ln Valle d’Aosta dal Nebbiolo derivano il Carema e il Donnaz; in Valtellina il Sassella, il Grumello, l’Inferno, lo Sfurzat.
Negrara trentina
Questo vitigno di uva nera è diffuso nel Trentino e nel Veronese, dove trova impiego nell’uvaggio per i vini della Valpolicella e per il Bardolino. Il grappolo è di formato piuttosto grande, allungato. L’acino è pure grande, sferico, di colore blu-violetto.
Negro amaro
Questo vitigno è diffuso particolarmente nel Leccese, dove viene chiamato anche Uva cane. Il grappolo è di media grandezza, con forma corta e serrata. La buccia dell’acino è pruinosa, di colore violaceo. Dal vitigno Negro amaro si ricavano i vini Matino rosso, dal colore rosso rubino con sapore asciutto, e Matino rosato, rosa intenso con sapore asciutto e caratteristico.
Nerello Mascalese
Con il nome di Nerello sono conosciuti diversi vitigni siciliani, tra cui il Mascalese, il Cappuccio, il Frappato. Il Mascalese è bene ambientato nella zona di Catania. Il grappolo è allungato, di aspetto medio, compatto; l’acino normale con buccia blu chiaro. Dal Nerello Mascalese, con aggiunta di un massimo del 20 per cento di Nerello Mantellato (o CappucCio) si ricavano i vini Etna rosso ed Etna rosato. Il Frappato concorre in buona parte per la produzione del Cerasuolo di Vittoria.
Nosiola
È un’antica varietà di uva esclusivamente trentina, a frutto bianco, già studiata nell’Ottocento. Molto rustica e resistente, predilige i terreni collinari ciottolosi e sassosi. Il grappolo è di media grandezza, lungo da 10 a 20 centimetri, piuttosto allungato, di forma cilindrica. Gli acini sono regolari, intensamente pruinosi e presentano un colore giallo verdastro dorato. La Nosiola prospera nella parte alta della Valle di Cembra, a Lavis e Pressano. Presente in alta Val Lagarina, a Rovereto, Nomi e Pomarolo. Oltre a un bianco caratteristico, riconosciuto vino Doc, dalla Nosiola dei vigneti posti intorno al lago di Toblino si ricava il Vino Santo.
Picolit
Con questa definizione friulana che deriva da piccolo (usato anche Piccolit) si usa indicare un vitigno da uva bianca un tempo molto coltivato nella zona dei Colli Orientali Friulani. La sua maggiore caratteristica esteriore è rappresentata dagli acini piccoli e radi su un grappolo di formato medio, piramidale.
La produzione è molto scarsa ed incostante perché va soggetto all’aborto floreale, cosa che ha sempre fatto discutere i tecnici. ln questi ultimi anni si stanno conducendo a Savorgnano del Torre degli esperimenti per migliorare la produttività del Picolit, senza intaccarne la qualità. Dal Picolit si ricava un vino pregiato, di colore paglierino chiaro o giallo dorato, delicatamente profumato, dal sapore amabile o dolce, caldo, armonico. La gradazione minima è di 15 gradi.
Pignola valtellinese
Con il nome di Pignolo (o Pignola) sono conosciuti diversi vitigni, molti dei quali danno prevalentemente uva da tavola. Il Pignola valtellinese entra nella composizione degli uvaggi per il Valtellina Superiore (Inferno, Grumello, Sassella, Valgella).
Il grappolo è piccolo, serrato, l’acino regolare di colore blu scuro.
Pinot Bianco
L’importante gruppo di vitigni (Pinot bianco, Pinot Grigio e Pinot nero) è originario della Francia, dove è stato alla base delle fortune vinicolo di regioni come la Bourgogne e la Champagne. Si è però bene ambientato in Italia trovando condizioni ideali in Alto Adige o in Friuli, nell’Oltrepò Pavese e in Franciacorta, È chiamato anche Borgogna bianco o Woissburgunder in Alto Adige. Il grappolo è piccolo, armonioso, piuttosto compatto. L’acino ha una buccia poco pruinosa, di colore giallo dorato, cosparsa di puntini.
Il Pinot bianco entra nella composizione di vari Pinot, tra cui il Pinot dell’Oltrepò Pavese, del Trentino, dell’Alto Adige, della Franciacorta. ln alcuni casi, come per l’Alto Adige, si tratta solo di Pinot bianco. Così dicasi per il Pinot bianco del Collio, dei Colli Orientali Friulani e dell’Isonzo, tutti ottimi vini da antipasto e da pesce.
Pinot grigio
È una derivazione del Pinot bianco e l’uva è stata ottenuta con particolari avanzate maturazioni. ln Germania e nell’Alto Adige viene chiamato Ruländer. L’origine è però sempre francese: infatti viene anche chiamato Borgogna grigio. I l grappolo è corto, di forma cilindrica, l’acino piccolo, leggermente ellittico.
La buccia presenta un colore grigio violetto, ma talvolta anche grigio rosa.
Tra i Pinot grigi sono da citare quello dell’Alto Adige, il Pinot grigio Valle Isarco, il Pinot grigio del Collio, delle Grave del Friuli, dei Colli Orientali Friulani, dell’Isonzo.
Pinot nero
Con il Pinot nero si completa la triade dei Pinot, naturalmente di origine francese, ben acclimatato anche questo in diverse zone, non solo dell’Italia settentrionale. ln Alto Adige viene chiamato Blauburgunder.
Il grappolo è di piccolo formato, compatto, di colore tendente al nero. Oltre al Pinot nero dell’Alto Adige, sono da segnalare quello del Trentino, il Pinot nero del Collio e dei Colli Orientali Friulani.
Il vino presenta, con le varianti da zona a zona, queste principali caratteristiche: colore rosso rubino più o meno intenso, profumo delicato, sapore un po’ aromatico, leggermente amarognolo. Gradazione sui 12°.
Prosecco
Originario di Prosecco, frazione di Trieste, sull’altopiano carsico, questo vitigno da uva bianca è coltivato soprattutto nel Veneto e specialmente nel Trevigiano. Il grappolo è di forma allungata e raggiunge i 25 centimetri, con acini rotondi a buccia gialla e polpa dolce. Nel Trevigiano è chiamato Prosecco Balbi, Glera o Serpina nel Friuli. Ricordiamo il Prosecco di Conegliano (in versione naturale), il Prosecco di Conegliano spumante, il Prosecco superiore di Cartizze e il Prosecco di Valdobbiadene, tutti in versione spumante o naturale.
Raboso veronese
Questo vitigno, diffuso principalmente nel Veneto, prende il nome dall’omonimo torrente nei pressi di Conegliano. Prende anche il nome di Raboso di Verona o Terrano d’Istria. È un’uva rossa a grappoli piuttosto grandi, resistenti ad ogni malattia.
Nella zona del Piave viene prodotto un Raboso di eccellenti qualità, molto adatto all’invecchiamento.
Refosco dal pécol rosso
Questo vitigno di uva rossa è coltivato nel Friuli-Venezia Giulia e nell’Istria, ora sotto la ex-Iugoslavia. Di antichissima origine, citato da Plinio il Vecchio, si riconosce per il peduncolo (pécol). È detto anche Terrano del Carso o Terrano d’Istria. Presenta un grappolo di formato piuttosto grande; il colore degli acini è blu intenso, la polpa sciolta e di buon sapore. Se ne ricavano vini di colore intenso, assai tannici, ma profumati e piacevoli. Il Refosco dei Colli Orientali Friulani ha un colore rosso violaceo intenso, profumo caratteristico, sapore asciutto e pieno, un po’ amarognolo. Piccola, ma significativa la produzione del Terrano del Carso.
Ribolla gialla
È un vitigno diffuso soprattutto nell’Udinese e nel Goriziano, mentre la Ribolla nera si trova in piccole quantità nei dintorni di Trieste. Viene chiamato anche Rebulla o Raibola, gli Slavi dicono «Rebula ».
Presenta un grappolo piuttosto piccolo e raccolto, l’acino ha una buccia pruinosa di colore giallo alabastro. Dalla Ribolla gialla si ottiene un vino bianco leggero, fresco, sottilmente ammandorlato.
La gradazione minima è di 12°.
Riesling Italico
Il Riesling è un vitigno pregiato da uva bianca originario delle province renane, dove produce i celebri vini del Reno. Coltivato anche nella bassa Austria, in Stiria e in Alsazia, è stato importato in Italia a metà del secolo scorso. Si distingue in due varietà, il Renano e l’Italico di cui stiamo trattando. Presenta un grappolo piccolo, tozzo, compatto.
L’acino è piuttosto piccolo, la buccia pruinosa di colore giallo dorato. Simile al Riesling Italico è il Riesling Trentino. Nel Collio Goriziano fa spicco un Riesling Italico, vino di colore giallo dorato chiaro, con profumo caratteristico, sapore asciutto e armonico.
Riesling Renano
Come suggerisce il nome, proviene dalla zona del Reno, in Germania, e ha trovato ottimo ambientamento in certe nostre fasce vinicole non solo in Alto Adige e Friuli, ma anche nell’ Oltrepò Pavese.
Il grappolo è piccolo e compatto, la buccia dell’acino di colore dorato carico, la polpa succosa, di sapore aromatico.
Tipici vini da Riesling Renano troviamo nell’Alto Adige, tra cui il Terlano-Riesling Renano. Il Riesling Renano dei Colli Orientali Friulani ha queste caratteristiche di base: colore giallo dorato chiaro, profumo caratteristico, sapore asciutto. È un vino da antipasti e da pesce.
Rondinella
Vitigno del Veronese che entra in consistente percentuale (fino al 40 per cento) nell’ uvaggio che determina il vino Bardolino, insieme con la Corvina, la Molinara e la Negrara. ln egual misura concorre all’ uvaggio del Valpolicella e del Recioto della Valpolicella.
Il grappolo è di formato medio, piramidale; l’acino ha una buccia pruinosa, di colore nero violaceo.
Sangiovese
È il vitigno cui spetta il principale merito delle fortune del vino Chianti, in Italia e nel mondo. ln realtà, i Sangiovese sono due: il Sangiovese «grosso», maggiormente coltivato e di maggior pregio, e il Sangiovese «piccolo», meno coltivato perché meno produttivo, ma anche perché fornisce un vino di qualità meno pregiata. Si usa chiamarlo anche Sangiovese montanino. Quest’ultimo presenta un grappolo di media grossezza, con acino piccolo.
Il Sangiovese «grosso» presenta grappoli di media grandezza, con acini piuttosto grossi a buccia consistente, pruinosa, di colore viola cupo, polpa succosa e zuccherina.
Il tipo più noto di vino che porta il nome di sangiovese (il vitigno è diffuso in tutta Italia, in 44 varietà) è quello della Romagna, di cui si conoscono partite particolarmente pregiate, come quelle delle Rocche. Ha colore rosso rubino, talvolta con riflessi violacei, profumo delicato che ricorda la viola, sapore asciutto e armonico, con retrogusto amarognolo. Nei vari tipi di Chianti, il Sangiovese entra in proporzioni che variano tra il 50 e 1’80 per cento.
Sauvignon
Questo interessante vitigno, importato dalla Francia nel secolo scorso, si è ambientato ottimamente in varie zone. L’uva è detta anche Spergolina o Pellegrina (in Emilia). Il grappolo è di formato medio, alato e cilindrico. La buccia dell’acino ha un colore giallo dorato. Fra i vini Sauvignon prodotti in Italia possiamo ricordare il Terlano Sauvignon dell’Alto Adige, di colore giallo verdognolo, profumo caratteristico, sapore pieno. Più o meno sullo stesso piano il Sauvignon del Collio Goriziano e il Sauvignon dei Colli Orientali Friulani. Fra le piccole produzioni, va citato il Sauvignon di Monte San Pietro (Colli Bolognesi).
Schiava
Questo vitigno è noto fin dal Medioevo e dà origine al gruppo delle Schiave, interessanti uve nere da vino, molto diffuse in Alto Adige e in buona quantità nel Trentino, nonchè in alcuni tratti costieri del Lago di Garda. La migliore, con la resa più bassa e gli acini più piccoli, è la Schiava gentile (Kleinvernatch nel dialetto locale). Viene poi la Schiava grossa o Schiavona o Schiava meranese, più abbondante come resa, e infine la Schiava grigia. Tutte e tre sono spesso coltivate nello stesso vigneto. È questo il caso del noto vino Santa Maddalena, forse il più pregiato dell’Alto Adige: è un rosso dal colore rubino o granata, con profumi che ricordano la viola e la mandorla e gusto vellutato che pure ricorda la mandorla. La Schiava (o le Schiave) entra nella composizione del Lago di Caldaro, del Meranese di Collina, dei Colli di Bolzano e delle Schiave dell’Alto Adige, nonché del Valdadige rosso. Il grappolo della Schiava gentile, di grandezza media, è inconfondibile per il colore degli acini, tendenti al viola chiaro, con buccia tenera e polpa succosa e dolce. La Schiava grigia presenta un grappolo piramidale e acino di grossezza media. Il colore è blu, con velatura grigia. La Schiava grossa ha acino di grossa dimensione, buccia blu-nero, polpa succosa.
Teroldego
Questo vitigno è esclusivo del Trentino e predomina in una particolare zona, chiamata Campo Rotaliano, comprendente i comuni di Mezzocorona e Mezzolombardo, con San Michele all’Adige, in parte. Vari i sinonimi: Tiraldega, Tiraldola, Tiroldola. Il grappolo è di forma allungata, piramidale, l’acino ha una buccia molto spessa, di colore blu-nero.
Il Teroldego è un vino rosso di ottima qualità, dal colore rosso rubino piuttosto intenso, con riflessi violacei; ha profumo gradevolmente fruttato, sapore asciutto e sapido, legger. mente amarognolo, che sa di mandorla. È proposto anche nella versione “rosato”.
Tocai friulano
Quest’ uva originaria del Friuli, diffusa anche in altre province venete, è diversa dalle uve del Tokaj ungherese, da cui probabilmente ha tratto origine (o viceversa, stando a quanto asseriscono ricercatori friulani di quell’aggrovigliata materia che è l’emigrazione dei vitigni da un Paese all’altro e da una zona all’altra). Il grappolo del Tocai friulano è piuttosto lungo, alato, non molto compatto, con acino di grandezza media ovoidale e buccia di un bel giallo dorato. Il Tocai dei Colli Orientali Friulani ha un colore paglierino dorato chiaro tendente al citrino, profumo caratteristico, sapore caldo e asciutto.
Con caratteristiche simili e su un piano competitivo si presentano il Tocai del Collio Goriziano, il Tocai delle Grave del Friuli e il Tocai dell’Isonzo. Altri Tocai: del Piave, di Lison, di Aquileia.
Traminer aromatico
Questo vitigno da uve bianche (detto anche Gewürztraminer o Aromatica) proviene quasi sicuramente da Tramin (o Termeno) in provincia di Bolzano. Ha acquistato maggiore notorietà in Alsazia e nella valle del Reno, raggiungendo anche vigneti lontani come in California e nel Sudafrica. Per il suo Colore grigio-rosso, a maturazione, è noto anche come Traminer rosa. Ha inoltre, come uva e come vino, un suo aroma speciale e pronunciato. La polpa dell’acino assume essa pure un sapore speciale, decisamente aromatico. Il Traminer aromatico del Trentino e quello dell’Alto Adige sono vini molto apprezzati, con queste caratteristiche di base: colore giallo dorato, profumo intenso e caratteristico, sapore pieno e lievemente amarognolo, gradevolmente aromatico. Gradazione minima: 11,50 . Nella Venezia Giulia si produce il Traminer del Collio, un po’ meno aromatico rispetto a quelli dell’Alto Adige e del Trentino; da segnalare anche il Traminer aromatico dell’Isonzo.
Trebbiano di Soave
Con il nome di Trebbiano sono indicate diverse varietà di uva bianca da vino. Il Trebbiano di Soave, facoltativo per la produzione del Soave e del Recioto di Soave, è detto anche Trebbiano Veronese o Turbiano. Il grappolo è di formato medio allungato, piuttosto compatto, con un’ ala sul fianco, foglia pentagonale, trilobata; buccia dell’acino colore giallo verdastro, punteggiata.
Trebbiano toscano
È il vitigno che fornisce le uve bianche che intervengono nella preparazione del Chianti. Molto usato in Italia, un po’ meno in Francia, dove fu portato all’epoca dell’esilio dei papi ad Avignone, dove prese il nome di Ugni Blanc. Il grappolo è piuttosto grande, allungato con una o due ali. L’acino ha una buccia di colore giallo-verde o giallo-rossastro.
Dal Trebbiano si ricavano alcuni vini bianchi toscani, come l’Arbia bianco, il Bianco di Pitigliano, l’Elba bianco, il Parrina, il Bianco vergine della Valdichiana.
Caratteristiche consimili presentano il Trebbiano di Romagna, il Trebbiano d’Aprilia e il Trebbiano d’Abruzzo.
Uva di Troia
Probabilmente questo vitigno è stato importato in Puglia dai Greci, dopo la conquista di Troia. Viene chiamato anche Uva di Barletta. Il grappolo è di consistenza media, l’acino color violetto scuro.
L’Uva di Troia viene impiegata per la produzione del Castel del Monte rosso e del Castel del Monte rosato. Possono concorrere anche uve di Bombino nero o di Sangiovese, però fino a un massimo del 30 per cento. L’Uva di Troia entra negli uvaggi di altri vini pugliesi, come ad esempio il Rosso di Cerignola.
Verdeca
Coltivato in Puglia, particolarmente nella provincia di Taranto, è chiamato anche Verdicchio femmina. Presenta un grappolo conico e un acino di colore verde biancastro. L’uva Verdeca concorre nella misura dal 50 al 65 per cento alla composizione del vino bianco Martinafranca, insieme con il Bianco d’Alessano. La stessa posizione occupa per il Locorotondo, bianco che molti considerano fra i migliori dell’Italia meridionale. La preparazione del Locorotondo è fatta nelle province di Bari, Brindisi e Taranto.
Verdicchio bianco
Questo vitigno produce un’uva bianca da vino di qualità superiore. Viene chiamato anche con altri nomi come Verdone, Verdicchio dolce, Verzello. Il grappolo è di media grossezza, piuttosto raccolto. L’acino presenta una buccia sottile ma consistente, color verde giallastro; la polpa ha sapore zuccherino.
II vino Verdicchio dei Castelli di Jesi, zona classica, presenta colore paglierino tenue con riflessi verdolini, profumo caratteristico accentuato, sapore asciutto e leggermente abboccato, con fondo gradevolmente amarognolo, sapido e armonico. Da ricordare anche il Verdicchio di Matelica, che si produce in provincia di Macerata.
Verduzzo friulano
Da questo vitigno nasce un’uva bianca di qualità, diffusa specialmente nella Venezia Giulia, nel Friuli, nelle province di Venezia e di Treviso. Presenta un grappolo di piccolo formato, piramidale, alato.
L’acino, medio e regolare, ha un colore giallo verdastro più o meno accentuato e polpa succosa, con sapore aromatico.
Fra i vini maggiormente conosciuti sono da citare il Verduzzo delle Grave del Friuli e il Verduzzo dei Colli Orientali Friulani. Queste le caratteristiche medie: colore giallo dorato, profumo vinoso caratteristico di fruttato, che si accentua nel tipo «dolce» (Verduzzo di Ramandolo), sapore asciutto oppure amabile-dolce. Quest’ultimo tipo di vino si ottiene facendo leggermente appassire le uve. Diventa in questo caso da dessert. Altri vini da ricordare: il Verduzzo del Piave, il Verduzzo dell’ Isonzo, il Verduzzo di Latisana.
Vermentino
Questo vitigno è diffuso in provincia di Sassari, in Sardegna, in Liguria e nella parte settentrionale della Toscana. Si ritiene originario della Spagna. È chiamato anche Malvasia grossa, Carbesso o Carbes. Il grappolo di bella uva bianca, allungato nella forma, pesa intorno ai 250 grammi. L’acino è piuttosto grosso, di forma regolare; colore della buccia giallo ambrato; polpa succosa. Il Vermentino di Alghero, simile al Vermentino di Gallura, ha queste sostanziali caratteristiche: colore paglierino o verdolino chiaro, profumo delicato, sapore asciutto, sapido, fresco, armonico, spesso frizzante. Simile è il Vermentino ligure, la cui produzione è molto scarsa.
Vernaccia di Oristano
Con il nome di Vernaccia sono conosciute uve diverse che, anche a seconda delle zone dove sono coltivate, producono vini diversi. La Vernaccia di Oristano o Vernaccia bianca è fra le più conosciute. Il vitigno è caratteristico di una pittoresca zona della Sardegna, nella bassa vallata del Tirso. Il grappolo è piccolo, di forma serrata; l’acino, con buccia di media consistenza, ha un colore verde giallastro con sfumature dorate; la polpa è sciolta con, sapore neutro. La Vernaccia di Oristano presenta le seguenti caratteristiche: colore giallo dorato ambrato, profumo delicato con sfumature di mandorla; sapore fine e sottile, con gradevole retrogusto. Gradazione alcolica 14° Del Vernaccia di Oristano esiste anche la versione liquorosa, però non molto pregiata.
Vernaccia di San Gimignano
La Vernaccia di San Gimignano è conosciuta anche come Vernaccia di Pietrafitta. Il grapè di formato superiore alla media, alato talvolta e allungato; acino regolare, di colore verde giallastro, ambrato nelle posizioni meglio esposte al sole; ha polpa succosa.
Questo il breve profilo del vino che ne deriva: colore giallo dorato chiaro; sapore asciutto e fresco, piuttosto armonico; profumo penetrante, gradazione minima 12°.

Principali vitigni stranieri 

Alicante
E’ una delle uve nere più comuni nel sud della Francia, che ritroviamo anche in Sardegna. Una varietà di quest’uva, l’Alicante Bouschet, è stata portata in Algeria e in California. È adatta per conferire colore ad altri vini.
Cabernet
È una delle uve nere da vino più nota, dalla quale si ricavano quasi tutti i grandi vini rossi di Bordeaux, parecchi pregevoli vini italiani e altri in terre lontane, come la California, l’Australia, il Sudafrica. I due tipi fondamentali sono: il Cabernet Sauvignon che fornisce un’uva più piccola e meno produttiva, ma da cui si ottiene un vino più resistente, più lento di maturazione e più ricco di tannino. L’altro tipo è il Cabernet franc, dal quale esce un tipo di vino più morbido ed è la varietà più diffusa a Saint-Émilion, nel Bordolese.
Carignan
Uva nera assai produttiva, largamente coltivata in Francia meridionale, in Spagna e in Algeria. Pur non essendo di prima qualità, fornisce vini piuttosto gradevoli.
Chardonnay
È una delle migliori uve da vino bianco: rivaleggia con il miglior Riesling e spesso lo supera. Da essa derivano grandi vini bianchi della Bourgogne, come il Montrachet, il Pouilly-Fuissé, lo Chablis. Si adopera, in parte, per lo Champagne. Spesso si usa chiamarla Pinot Chardonnay, ma la definizione è impropria: non ha alcun legame diretto con il Pinot nero e con il Pinot bianco. Prende il nome da un piccolo villaggio nella zona del Mâconnais. ln considerazione delle doti dell’aristocratico vitigno, sono state iniziate con successo varie coltivazioni di Chardonnay in Italia. Il nucleo più ragguardevole e relativamente più antico riguarda il Trentino, dove si produce una rinomata uva Chardonnay, base per vini tranquilli e spumanti. Altri vigneti, anche estesi, si trovano in Friuli-Venezia Giulia, nel Veneto, in Toscana, anche in Puglia e, recentemente, in Piemonte.
Chasselas
È un vitigno che fornisce un’uva bianca da vino da cui esce un prodotto di poca acidità, usato per la mescolanza con altre uve, diffuso in Svizzera, nella Loira, nel Baden, nell’Alsazia. ln Svizzera lo chiamano Fendant ed è apprezzato per l’alta resa quantitativa.
Cinsault
È una delle uve nere che concorrono alla composizione di un famoso vino: lo Châteauneuf du Pape. Viene raramente usata da sola ma è di qualità superiore.
Gamay
È una delle uve da vino rosso caratteristiche della zona del Beaujolais che ritroviamo in altre regioni, come in Savoia. Se impiantato su terreni adatti è in grado di fornire risultati fra i più lusinghieri e anche sorprendenti.
Grenache
Uva di buona qualità e di abbondante rendimento che predomina nei vigneti della Francia meridionale e nella zona di Rioja nella Spagna settentrionale. Particolarmente indicata per la produzione dei vini rosés, come il Tavel.
Malvoisie o Malvasia
È una delle più antiche e famose uve bianche (ne esiste anche una variante rossa, ma di minore importanza) originaria delle Isole Egee e della Grecia e poi diffusa in tutti i Paesi del Mediterraneo e anche in Africa e America. Accanto alla Malvasia delle Lipari va posta la Malvasia di Madera e parecchie altre. Il vino, che gli Inglesi chiamano Malmsey, è molto dolce, di tinta ambrata. Ci sono però anche uve Malvasia che danno vini secchi da pesce, come la Malvasia del Collio Goriziano.
Merlot
Tra le uve rosse da vino è una delle più importanti e, insieme al Cabernet, costituisce motivo di orgoglio per i vignaioli di Bordeaux, essendo originaria di quella celebre regione vinicola. Conferisce gusto e morbidezza a molti grandi vini francesi. E coltivata in Italia con ottimi risultati, specie nel Trentino, in Alto Adige, nel Veneto, in Friuli-Venezia Giulia.
Meunier
Una sottovarietà del Pinot nero; si chiama così perché il rovescio della foglia è biancastro, come fosse cosparso di farina. Largamente diffuso nello Champagne e in Alsazia.
Muscat
Vitigno corrispondente al nostro Moscato, chiamato anche con altri nomi, come Moscatel o Muscadelle. L’uva Muscat è largamente coltivata nella Francia meridionale, in Spagna, in Portogallo, nelle isole mediterranee e in Grecia. L’elenco dei moscati di qualità è molto vasto. Unica e inconfondibile caratteristica, l’aromatico odore e il sapore di Moscato.
Pedro Ximenes
Nome di una varietà di uva bianca spagnola, largamente coltivata nelle zone di Málaga e di Xeres de la Frontera, patria dello Sherry. È però originaria di Montilla, dove sarebbe stata portata nel XVI secolo da un soldato tedesco che si chiamava Peter Siemens. Dà un vino secco, molto robusto, base di molti Sherries, come l’Amontillado.
Pinot
Famiglia di vitigni che nel Gotha vinicolo occupa una posizione assolutamente di primo piano: si distingue principalmente fra Pinot blanc e Pinot noir. È l’uva di maggior importanza nello Champagne: difatti dal Pinot blanc e dallo Chardonnay (praticamente un clone del Pinot blanc) deriva la parte maggiormente selezionata della produzione di Champagne, cioè il Blanc de Blancs, mentre la restante parte si ricava dal Pinot nero o da mescolanze di Pinot bianchi e neri. Queste uve sono largamente coltivate anche in Borgogna. Introdotte in Italia, hanno dato eccellenti risultati in molte regioni, specie nel Trentino, nella Franciacorta e nell’Oltrepò Pavese, attualmente le zone più rinomate per la produzione dello spumante italiano vinificato con il metodo classico.
Pinot gris
Quest’uva è stata ottenuta da una mutazione del Pinot blanc e si trova in alcune zone della Francia, della Germania e dell’Italia. Viene chiamata anche Ruländer. Negli ultimi decenni quest’uva ha molto accresciuto la sua notorietà in Italia. La si coltiva principalmente nel Veneto, in Friuli-Venezia Giulia e nell’Oltrepò Pavese.
Riesling
Una delle uve più pregiate per la produzione del vino bianco, originaria, pare, dalla vallata del Reno. Coltivata nei migliori vigneti della Mosella e del Rheingau, in Alsazia e in Austria. Ha bisogno di zone fresche, di suolo sassoso e di basse produzioni.
Roussanne o Rossette
Molto diffusa nella zona del Rodano, fra Lione e Ginevra e nella Savoia, quest’uva bianca dà vini freschi, fragranti, assai gradevoli, alcuni dei quali spumanti.
Sémillon
Quest’uva bianca è molto diffusa nel sudovest della Francia e si distingue come componente dei vini di Sauternes e di Graves. Dà dei vini piuttosto dolci, se vinificata da sola. Di solito fa parte di uvaggi insieme con altri vitigni di uve bianche.
Sylvaner
Altra uva bianca molto produttiva, probabilmente di origine austriaca o tedesca e coltivata anche in Francia, Italia, Svizzera e anche nel Cile. Dà un vino più morbido, ma meno consistente del Riesling. ln Austria viene chiamata Österreicher. Insieme con il Riesling ha dato origine al Müller-Thurgau.
Ugni Blanc
Uva bianca che è coltivata in Francia nella meridionale dove dà origine al vino Cassis, mentre nella zona di Cognac è chiamata Saint-Émilion. Deriva dal Trebbiano toscano. Può fornire un vino genuino e gradevole, ma non di grande classe.
Tokaj
Vedi Tocai friulano o Furmint, per il vitigno ungherese da cui deriva il vino Tokaj.

Con quali uve si può fare il vino?

Le uve appartengono a due categorie principali:
 Vite europea (Vitis vinifera), la quale a sua volta comprende numerose varietà riconducibili a due tipi: da tavola (per esempio: Regina) e da vino (per esempio: Nebbiolo, Sangiovese, Barbera, Trebbiano). Per ogni provincia c’è un elenco di vitigni ritenuti particolarmente adatti per quei terreni e per il clima (vitigni raccomandati).
L’uva da tavola non è adatta alla produzione di vino perché non contiene quel complesso di sostanze da cui dipendono caratteristiche per le quali il vino è apprezzato.
 Vite americana (Vitis labrusca), la quale produce uva poco dotata di zuccheri, che, se venisse trasformata in vino, originerebbe un prodotto con scarsa gradazione alcolica e comunque con un contenuto alcolico inferiore a quello previsto dalla legge. Inoltre l’uva americana è caratterizzata da un sapore e da un odore detto selvatico o volpino ofoxy, che non è gradito alla stragrande maggioranza dei consumatori.
La vite americana è stata utilizzata per effettuare incroci con la vite europea, al fine di ottenere piante resistenti a determinati parassiti. Queste nuove piante sono conosciute come Ibridi Produttori Diretti; tuttavia anche questi I.P.D. non sono adatti a produrre uva da vino, a causa della scadente qualità che ne risulta.

L’utilità della vite americana (o dei suoi ibridi) è data invece dalla possibilità di innestarla con la vite europea, ottenendo una nuova pianta costituita alla base (con le radici) da vite americana e nella parte superiore (con foglie e frutti) da vite europea. Il risultato di questo innesto è la resistenza a un insetto parassita (la fillossera), che nel secolo scorso distrusse quasi tutti i vigneti di vite europea.


Quando si considera matura l’uva?


Vi sono vari indici che possono essere presi in considerazione per determinare la raggiunta maturazione dell’uva.
Innanzi tutto il grado zuccherino; l’uva acerba contiene pochi zuccheri e molti acidi, ma, a poco a poco, col procedere della maturazione la quantità di zuccheri aumenta, mentre decresce l’acidità. Questo processo prosegue fino a dei valori limite, che dipendono sia dal vitigno sia dal clima; per esempio: il Barbera non raggiunge la gradazione zuccherina del Bonarda; al Sud le uve possono essere costituite dal 20 – 30% di zucchero, mentre al Nord questa percentuale si abbassa fino al 15 – 20%. Inoltre, quando l’uva è matura, la sua massa zuccherina è costituita da parti uguali (all’incirca) dei due zuccheri principali: il glucosio e il fruttosio.
Ogni varietà di uva, a piena maturità, ha un ben preciso colore degli acini: Nebbiolo, violaceo; Barbera, blu intenso; Freisa e Dolcetto, nero bluastro; Grignolino, rosso-viola; Cortese, giallo-oro; Moscato, giallo-oro con maculature.

Ogni varietà acquisisce un sapore tipico particolare che si esprime appieno quando l’uva è giunta a completa maturazione.


Qual è il momento giusto della vendemmia?


Occorre prima di tutto pensare quale tipo di vino si desidera produrre. Volendo ottenere un vino ricco di alcol, bisogna vendemmiare quando nell’uva si è accumulata la maggior quantità possibile di zucchero.

Per verificare quando è stato raggiunto il massimo grado zuccherino, il viticoltore procede all’assaggio della propria uva, che ben conosce, ma si può avvalere di alcuni strumenti dall’uso semplice e dal costo contenuto (mostimetro, rifrattometro).
In prossimità della maturazione, ogni giorno si raccoglie qualche grappolo e si fa l’analisi dello zucchero; quando la percentuale resta invariata rispetto all’analisi precedente significa che l’uva non può più accumulare altro zucchero, per cui conviene procedere alla vendemmia (nelle ore calde, in modo che la rugiada non diluisca il prodotto).
Nelle zone meridionali è utile anticipare la vendemmia rispetto alla medesima quantità di zucchero accumulabile, in modo che il grado alcolico del futuro vino non superi i 13° – 14° , sia perché sarebbe difficile ottenere un buon prodotto a gradazioni superiori (diventa infatti problematica la trasformazione di uva in vino) sia perché la media del consumatore non gradisce vini troppo alcolici.
Dunque al Sud bisogna vendemmiare prima della piena maturazione, a meno che non si voglia produrre vini liquorosi (nel qual caso si raccoglie l’uva col massimo grado zuccherino possibile).
Per l’ottenimento di vini bianchi, e in particolare di vini spumanti, la vendemmia è anticipata rispetto alla piena maturazione, poiché le sostanze aromatiche raggiungono il loro massimo prima dello zucchero e soprattutto perché a questi vini giova un buon grado di acidità, che si ottiene appunto vendemmiando un po’ precocemente.
In ogni caso l’uva deve avere un minimo contenuto zuccherino per poter essere vendemmiata ai fini della produzione di vino.

Quali sono le caratteristiche di una cantina efficiente?


La cantina di tipo industriale (enopolio) è l’insieme dei locali ove avviene la vinificazione, cioè la trasformazione dell’uva in vino. È costituita da diverse zone e locali: zona per il ricevimento dell’uva, normalmente all’aperto sotto una tettoia; locale per l’ammostamento, ove cioè viene pigiata l’uva per ricavarne il mosto; locale per la fermentazione ove il mosto è trasformato in vino (al pian terreno); locale per l’affinamento, la maturazione e l’invecchiamento del vino in botti (interrato per non risentire degli sbalzi termici); laboratorio adibito alle analisi, magazzino e deposito; uffici.

La cantina del piccolo produttore o quella familiare dell’appassionato è invece costituita da uno o due locali; in questo secondo caso, un locale è adibito all’ammostamento e alla fermentazione e un altro alla conservazione e all’invecchiamento.
La cantina deve essere esposta in posizione nord-est per evitare gli sbalzi eccessivi di temperatura; il grado di umidità deve essere mantenuto attorno al 60 – 70% al fine di evitare il deterioramento degli attrezzi in legno, che potrebbero disseccarsi in caso di scarsa umidità e, nel caso opposto, potrebbero essere soggetti ad attacchi di muffe.

La temperatura ottimale per l’evoluzione e la conservazione del vino si aggira attorno ai 9 – 13 °C, vaIori che devono essere costanti nel corso di tutto l’anno. La cantina deve poter essere illuminata per consentire di operare agevolmente, ma di norma il vino deve stare al buio.


Quali macchine si usano per l’ammostamento?


Lo schiacciamento dell’uva per renderla liquida e ottenere il mosto può venire effettuato con varie macchine, a seconda del tipo di vino che si vuole ottenere.

La macchina più semplice è la pigiatrice, nella quale vi sono due rulli che, girando in senso opposto, schiacciano tutta l’uva e ottengono un mosto costituito da parte liquida, bucce, vinaccioli (semi) e graspi (o raspi); dalla fermentazione di questo mosto si ottiene un vino ricco di corpo e di colore e piuttosto tannico (astringente).
La pigia-diraspatrice schiaccia i grappoli, ma poi ne separa i graspi dal mosto, consentendo perciò di ottenere un vino meno tannico.
La diraspa-pigiatrice praticamente produce un mosto senza graspi, come nel caso precedente; tuttavia in questo caso prima vengono separati i graspi e poi viene pigiata l’uva, con il risultato che i graspi non vengono a contatto con la parte liquida, ragion per cui si ottiene un vino ancor meno tannico (cioè più morbido) rispetto al caso precedente.
Il torchio consente lo schiacciamento soffice dell’uva, che è particolarmente utile nel caso di uve ammuffite e quando si vuole produrre vino bianco; permette di ottenere solo mosto liquido, senza parti solide.
La pressa è un torchio ad asse orizzontale, che può agire in continuazione: vi si immette cioè uva a mano a mano che proviene dalla vigna e in continuazione la pressa schiaccia il prodotto, producendo mosto liquido, come nel caso precedente.
Ai fini di un facile illimpidimento del vino bianco, si consiglia di effettuare questa operazione sul mosto appena ottenuto mediante sgrondatrice, la quale separa la parte liquida dalle parti solide, nel caso che il mosto sia stato ottenuto mediante pigiatrice.

La nolmatura è una recente tecnologia che può essere considerata una pigia-sgrondatura; è molto rapida e consente di ottenere un mosto particolarmente atto a produrre vini limpidi.


Quali contenitori si utilizzano in cantina?


Il tino è il classico recipiente nel quale si immette il mosto affinché subisca la fermentazione alcolica; ha forma tronco-conica e il diametro maggiore è circa i 10/9 di quello minore; è provvisto di un’apertura anteriore attraverso la quale si può entrare per provvedere alla pulizia del recipiente al termine della fermentazione; nella parte superiore può essere scoperto (nelle zone calde) o coperto (nelle zone fredde); è costituito di listelli di legno (doghe) dello spessore di 4 – 8 cm, tenute insieme da cerchi metallici.

Oggi si tende a effettuare la fermentazione in tini di cemento o di acciaio inossidabile, che possono avere forma e capienza differenti.
La botte è il tipico contenitore, utilizzato per l’affinamento, la conservazione e l’invecchiamento del vino; può avere sezione circolare, ovale o ellittica ed è provvista di una piccola apertura nella parte superiore per poter controllare il livello del vino; anteriormente presenta l’apertura per l’entrata dell’addetto alla pulizia.
Vi sono botti della capacità di oltre 100 hl, fino a piccole botti di circa 2 hl (caratello toscano, barrique); sono costituite da doghe in legno spesse 4 – 10 cm e larghe 5 – 10 cm.
Attualmente sono assai diffusi anche contenitori in vetroresina per l’elaborazione del vino, la conservazione per brevi periodi e per il trasporto (a questo riguardo sempre meno vengono utilizzati i barili di legno).
I contenitori utilizzati in cantina si chiamano anche vasi vinari o vasche. I mastelli sono di uso corrente in cantina, essendo assai comodi per il travaso del vino. Le damigiane sono utilizzate per la conservazione e il trasporto del vino.

Mentre la tendenza moderna è quella di utilizzare l’acciaio inossidabile per la fermentazione del mosto e l’elaborazione del vino, il legno resta il materiale d’elezione per l’invecchiamento prolungato del vino, come suggerisce l’esperienza e come detta la legge.


Come devono essere trattati la cantina, le macchine e gli atrezzi dal punto di vista dell’igiene?


L’igiene dei locali della cantina, delle macchine e degli attrezzi è indispensabile per preservare il vino da attacchi batterici che possono provocare svariate malattie al vino.

I locali con pareti in cemento devono essere annualmente disinfettati mediante calce o solfato di rame; se le pareti sono piastrellate è invece sufficiente un buon lavaggio con acqua (questo trattamento è valido anche per il pavimento, il quale tuttavia richiede lavaggi frequenti).
Periodicamente, è necessario abbruciare dei dischi di zolfo (1 kg ogni 100 m3 d’ambiente), avendo l’avvertenza di chiudere tutte le aperture per 24 ore.
I recipienti in legno devono essere lavati con acqua spruzzata a forte pressione, previa eliminazione delle incrostazioni di cremor-tartaro; il tino o la botte, quando non contengono vino, devono essere riempiti con acqua contenente anidride solforosa.
Le vasche in cemento devono essere lavate con getti d’acqua spruzzata a forte pressione, poi mantenute colme d’acqua per una settimana, svuotate e spruzzate con una soluzione di acido solforico (o acido tartarico) al 10%. Infine devono essere sciacquate abbondantemente con acqua e lasciate aperte in modo che circoli l’aria. Se il cemento è rivestito internamente da piastrelle, è necessario un lavaggio con una soluzione di acido solforico o di acido tartarico (al 10 – 20%), indi sciacquare con acqua. I contenitori in acciaio inossidabile devono essere trattati con acqua o, se necessario, con soluzioni di acido tartarico o acido solforico; non utilizzare mai soluzioni contenenti cloro, poi- ché l’acciaio si corroderebbe!

Le macchine e gli attrezzi devono essere puliti ogni volta dopo l’uso, con acqua o con una soluzione acida.


Quanti tipi di mosto vi sono?


Il mosto d’uve è il prodotto che si ottiene dalla pigiatura o dalla torchiatura dell’uva. Siccome il mosto può essere conservato vari mesi (per esempio il Moscato per produrre l’Asti) prima di essere fermentato, in esso si può formare un po’ di alcol, che comunque non deve superare l’ 1%.

Il mosto parzialmente fermentato è quello in fase di trasformazione in vino; deve contenere meno del 60% dell’alcol che avrà a fine fermentazione (se questo valore è raggiunto o è superato il prodotto si considera già vino).
Il mosto concentrato è un mosto da cui è stata eliminata una certa quantità di acqua, mediante riscaldamento (a 105 °C per 10 secondi o a 40 °C a depressione) o congelamento (a — 10 °C circa si formano dei ghiaccioli d’acqua facilmente asportabili; per altro questo sistema è pressoché abbandonato); questo mosto contiene il 50 – 70% di zucchero.
Il mosto cotto è un mosto concentrato previo riscaldamento a fiamma diretta (può essere usato per il vino Marsala).
Il mosto concentrato rettificato (o zucchero integrale d’uva) è un mosto ancora più concentrato del precedente; teoricamente dovrebbe essere costituito soltanto da zucchero (glucosio e fruttosio), ma la tecnologia per ora non è in grado di conseguire questo risultato (che resta comunque il traguardo cui mira la ricerca).
Il mosto muto è un mosto non in grado di fermentare, in quanto è stato trattato con dosi elevate di un antisettico (anidride solforosa) oppure ha subito un’aggiunta di una notevole quantità di alcol etilico (12 – 15%); è così chiamato perché, non potendo fermentare, non produce il caratteristico rumore delle sostanze in fermentazione. È un mosto adatto a subire trasporti, ma al momento dell’uso, quando cioè 10 si vuole far fermentare, occorre eliminare l’antisettico che gli era stato aggiunto.

Il filtrato dolce è un mosto che ha subito varie filtrazioni con lo scopo di ritardare o impedire la fermentazione (in quanto i microrganismi che operano la fermentazione sono perlopiù trattenuti dal filtro).


Quali sono le principali sostanze che contiene il mosto?


Acqua: 70-85%
Zuccheri: glucosio 7,5-15% – fruttosio 7,5-15% – pentosi 0,2-0,3%
Sostanze pectiche: 0,2-0,3%
Gomme, mucillagini: tracce
Acidi organici: tartarico 5-10% – malico 2-5% – citrico 0,2-0,5%
Acidi inorganici: solforico 0,2-0,7% – fosforico 0,3-0,5% – cloridrico 0,02-0,25
Polifenoli: flavoni 0,05% – antociani 0,05% – leucoantociani 0,02-15 – tannini 0,5-2%
Sostanze azotate: sali d’ammonio 20-400 mg/l – aminoacidi e proteine 0,2-0,5%
Sostanze aromatiche: tracce
Vitamine: tracce
Sorbite, inosite: pochi mg/l
Elementi minerali: potassio 0,5-1,5% – calcio 0,05-0,2% – magnesio 0,08-0,1% – sodio 0,01-0,05% – manganese pochi mg – ferro pochi mg
Enzimi: pochi mg


Quali sono le sostanze che conferiscono colore all’uva e al vino?


Nell’uva bianca a piena maturità il colore è dato dai flavoni, ma se lo stadio di maturazione non è completo anche la clorofilla interviene nel conferire una colorazione tendente al verde.

Nell’uva rossa il colore è conferito dagli antociani. In entrambi i casi i pigmenti colorati sono localizzati nelle bucce; in poche varietà gli antociani si ritrovano anche nella polpa, per esempio nel caso dell’Alicante Bouschet.
Nel vino bianco, tuttavia, non si ritrovano i flavoni e pertanto il colore giallo è da ricercare in altri composti e precisamente nei leucoantociani (o procianidine), che hanno subìto qualche reazione di modesta polimerizzazione (vale a dire che si sono unite fra loro 2 o 3 molecole).

Per quanto riguarda il vino rosso giovane, il colore è conferito dagli antociani; la diversa tonalità del colore, che varia dal violaceo al rubino e al granato, dipende dai diversi tipi di antociani che sono più o meno prevalenti nei singoli vitigni. Quando il vino rosso supera i due anni di età è difficile che contenga ancora antociani, infatti il suo colore tende all’aranciato; in questa situazione i maggiori responsabili del colore sono i tannini e nuove sostanze formatesi col temp0 (tannini legati ad antociani).


Si può correggere il mosto povero di zuccheri?


Dipende dalla quantità di zuccheri presenti e dal tipo di vino che si vuole ottenere.

L’Italia, dal punto di vista vitivinicolo, è suddivisa in tre zone:
 CIb, che comprende le provincie di Aosta, Sondrio, Belluno, Trento e Bolzano;
 CII, che comprende tutte le zone non appartenenti a CIb e alla seguente CIII;
 CIII, che comprende Basilicata, Calabria, Puglia, Sicilia e Sardegna.
Nella zona Clb l’uva deve contenere almeno una quantità di zuccheri che assicuri al vino 8 gradi alcolici; nella zona CII 8,5 e nella zona CIII 9. Se non sono raggiunti detti valori, l’uva non è destinabile a vinificazione. Se questi minimi sono invece raggiunti è necessario, e legalmente ammesso, che la quantità di zuccheri sia aumentata in modo da avere almeno 9 gradi alcolici. Peraltro quanto ora detto vale per il 90% dei vini italiani, cioè per i vini da tavola, mentre per i vini di qualità i limiti minimi previsti sono: 9 (zona Clb); 9,5 (zona CID e 10 gradi alcolici (zona CIII). Anche in questo caso il mosto può essere arricchito in zuccheri, in modo da avere un maggiore grado alcolico nel vino.
L’aumento di zuccheri nel mosto può avvenire per mescolanza (in gergo si dice taglio) con altro mosto più dolce o con un mosto concentrato, oppure si può direttamente concentrare il mosto povero di zuccheri. Non si può tuttavia aumentare gli zuccheri a piacere, ma fino a un massimo che comporti non più di 2 gradi alcolici in più nel futuro vino.

Limitatamente agli spumanti e ai vermut, la legge consente l’aggiunta diretta di zucchero (saccarosio), come è consentito per i vini in Francia e in Germania.


Si può correggere anche l’acidità del mosto?


È possibile; di fatto il mosto può essere poco acido e in tal caso corre il rischio di non subire una corretta trasformazione in vino, poiché sarà facilmente soggetto ad attacchi batterici vari che possono causare le più svariate malattie. In questa situazione la legge consente di aumentare l’acidità del mosto mediante un’aggiunta di acido tartarico, che è l’acido più abbondante nell’uva e presente esclusivamente in essa.

Se invece il mosto appare molto acido, non conviene diminuirne l’acidità, poiché si corre il rischio di avere poi un vino troppo poco acido, in quanto subentreranno altri fenomeni naturali che abbasseranno il grado di acidità. Tuttavia in determinate annate in cui il decorso climatico è stato particolarmente sfavorevole, con piogge frequenti e basse temperature, il mosto può essere eccessivamente acido e in questo caso è giustificata una certa disacidificazione del mosto (come è avvenuto in molte zone settentrionali nel 1984).


Sull’uva e nel mosto vi sono microrganismi?


Sugli acini e sui graspi sono presenti i microrganismi più svariati: muffe, batteri e lieviti. Questi, dopo avere svernato nelle piante oppure nel terreno, sono trasportati ovunque dal vento e dagli insetti. In particolare, i microrganismi si annidano facilmente sugli acini, essendo questi ricoperti da una sostanza cerosa, che è detta pruina.

Evidentemente, quando il grappolo viene pigiato, i microrganismi presenti nella buccia e sul graspo passano nella parte liquida, tanto che nel mosto se ne contano fino a 200 milioni per litro.
Le muffe (assai temuta è la muffa grigia Botrytis cinerea) sono presenti nel caso di piogge in prossimità della maturazione e sono dannose perché possono alterare il colore e la limpidezza del futuro vino. In un determinato caso questa muffa (detta nobile) risulta utile: questo avviene nelle zone in cui, all’epoca della maturazione dell’uva, il clima è asciutto e nell’uva vengono formate nuove sostanze che conferiscono poi al vino caratteristiche gradite; inoltre la muffa consuma molti acidi e acqua, per cui lo zucchero risulta concentrato. Vini di questo tipo sono i Sauternes, il Tokay d’Ungheria, i Riesling del Reno, ecc.

Anche i batteri sono dannosi al vino, in quanto causano varie malattie; in un caso molto particolare hanno però un’azione positiva, perché diminuiscono l’acidità e rendono quindi il prodotto più morbido (si tratta della fermentazione malo-lattica di cui sarà detto più avanti).


Che cosa sono i lieviti?


Sono dei microrganismi unicellulari, cioè costituiti da un’unica cellula, che ha dimensioni di un centesimo di millimetro; appartengono alla categoria dei funghi e sono anche detti blastomiceti.

Sono comunemente noti come saccaromiceti per il fatto che il nome latino dei più importanti di questi microrganismi è Saccharomyces.
In un litro di mosto appena prodotto se ne ritrovano da 2 a 100 milioni, suddivisi fra tipi diversi catalogabili in alcune migliaia di ceppi.
Appena il mosto è prodotto, i lieviti si nutrono dello zucchero in esso contenuto, effettuando una normale respirazione come ogni organismo vivente. Quando hanno consumato tutto l’ossigeno a disposizione, anziché morire come sarebbero costretti a fare gli altri esseri viventi, essi fermentano, cioè utilizzano lo zucchero trasformandolo in alcol etilico, anidride carbonica e vari prodotti secondari.
Analizzando un mosto in piena fermentazione si vede che i lieviti sono aumentati di numero fino a dieci volte e anche più.

La moltiplicazione dei lieviti nel mosto è possibile per la presenza non solo di zucchero, ma anche di sostanze azotate (sali d’ammonio, aminoacidi), di vitamine e di sali minerali. Per poter fermentare senza difficoltà, i lieviti abbisognano di una temperatura compresa tra 10 e 30 °C.


Quali sono le differenze tra i lieviti apiculati e quelli ellittici?


Tra i vari tipi di lievito che si trovano in natura, dal punto di vista enologico interessano i seguenti:

 cocchi, a forma tondeggiante e di scarso rilievo nel mosto e nel vino;
 apiculati, a forma di limone e svolgenti varie azioni sgradite;
 – ellittici, così chiamati per la loro forma, buoni vinificatori,

Questi ultimi sono di dimensioni maggiori rispetto agli altri citati e presentano varie prerogative positive, che non hanno invece i lieviti apiculati. Innanzi tutto gli ellittici hanno miglior resa nella trasformazione dello zucchero in alcol; inoltre riescono a produrre vini con 14-15 gradi alcolici e più (mentre i lieviti apiculati non resistono oltre i 4-6 gradi alcolici); producono poco acido acetico che, se presente in quantità elevata, conferisce al vino l’odore e il sapore di aceto; infine gli ellittici sono i lieviti più resistenti a un antisettico (anidride solforosa, vedi oltre) che si aggiunge al mosto per regolare la fermentazione e per proteggerlo dalle ossidazioni.


Che cosa sono i lieviti selezionati?


Come si è detto, i lieviti ellittici presentano alcune prerogative che non sono invece possedute dai lieviti apiculati, tanto che i primi sono noti come buoni vinificatori. Nell’ambito dei lieviti ellittici vi sono varie specie, ognuna delle quali ha delle caratteristiche tipiche; per esempio: il Saccharomyces rosei è assai rapido nell’iniziare la fermentazione; il S. oviformis (o Bayanus) riesce a produrre fino a 18 gradi alcolici. È possibile individuare le diverse specie di lievito, separarle e riprodurle in modo da avere poi una selezione dei tipi che interessano per una data vinificazione.

Per produrre il vino spumante è stato selezionato il lievito S. cerevisiae ellipsoideus, noto come ceppo 495, il quale è in grado di resistere alle elevate pressioni che sono presenti all’interno delle bottiglie di spumante a causa del notevole contenuto gassoso (anidride carbonica).
Per produrre i vini Xeres, Vernaccia di Oristano, Malvasia di Bosa, sono utili alcuni lieviti tipo S. aceti, S. prostoserdoii, ecc. Per rifermentare un vino (è il caso di vini alterati) o per produrre vini passiti sono adatti i lieviti tipo S. oviformis.

Ovviamente, affinché i lieviti selezionati possano svolgere nel migliore dei modi l’azione a essi richiesta, è necessario aggiungerne al mosto quantità rilevanti (3% del mosto), in modo che diventino prevalenti sui lieviti già presenti; oppure il mosto è pastorizzato per inattivare i lieviti presenti e poi addizionato di lieviti selezionati.


Che cosa significa pulire il mosto?


Il mosto, comunque ottenuto, contiene molte sostanze estranee (terra, residui vegetali, ecc.) e varie sostanze derivanti dal grappolo che lo rendono torbido.

Nell’attesa che il mosto fermenti, una parte di queste sostanze deposita in fondo al recipiente (feccia), mentre altre sostanze (più leggere) affiorano; con un travaso si possono eliminare le sostanze pesanti depositate, come pure si può eliminare la parte affiorante. In altri termini, il mosto tende spontaneamente a illimpidirsi in una certa misura.
Si constata che più il mosto è limpido, pulito, più facilmente si conseguirà la limpidezza del futuro vino, il quale, oltre tutto, raggiunge maggior finezza relativamente alla qualità.

L’allontanamento rapido delle sostanze intorbidanti il mosto è detto sfecciatura ed è conseguibile attraverso vari procedimenti: refrigerazione, centrifugazione, filtrazione, chiarificazione, solfitazione. Di ognuna di queste tecniche sarà diffusamente detto più avanti.


Perché al mosto si aggiunge metabisolfito o anidride solforosa?


Occorre prima di tutto precisare che il metabisolfito è un sale che, immesso nel mosto (o nel vino), sviluppa anidride solforosa, Questa sostanza è un gas dall’ odore pungente che può essere aggiunto direttamente al mosto (o al vino) mediante apposite bombole di tipo industriale o familiare.

L’anidride solforosa svolge due azioni fondamentali:
— regola la fermentazione alcolica;
— protegge il mosto (e il vino) dalla nefasta azione dell’aria.
Per quanto riguarda la prima azione, essa provoca una selezione dei microrganismi, inibendo del tutto le muffe, i batteri e i lieviti apiculati, mentre l’azione inibente è piuttosto contenuta verso i lieviti ellittici (buoni vinificatori). Come conseguenza si ha che solo questi ultimi attaccano lo zucchero per trasformarlo in alcol. Se l’uva è sana, una dose di 50-100 mg/l di anidride solforosa svolge adeguatamente l’azione suesposta, mentre occorre una dose di 150-200 mg/l in caso di uve poco sane, ricche di muffa.

La seconda azione consiste nel captare l’ossigeno il quale andrebbe a ossidare le sostanze coloranti, conferendo un colore, un odore e un sapore tipicamente detti di ossidato (o marsalato se il difetto è accentuato).


Sono permesse altre aggiunte al mosto?


Altri composti possono essere addizionati al mosto a seconda delle necessità.

Se il mosto stenta a fermentare oppure se la fermentazione tende ad arrestarsi anzitempo, le cause sono riconducibili in genere a carenza di vitamina B1 o a carenza di sostanze azotate. La legge consente quindi un’aggiunta di questi composti nella dose massima di 0,6 mg/l di vitamina BI e 0,3 g/l di fosfato biammonico (anche solfato ammonico nella CEE).
A parziale sostituzione dell’anidride solforosa si può aggiungere l’acido sorbico (o il suo sale sorbato di potassio) che svolge azione fungistatica, cioè inibisce tutte le forme fungine (lieviti e muffe).
E concesso un trattamento con carbone enologico nel caso che il mosto bianco (cioè pronto per fare vino bianco) abbia un eccesso di colore o un tono rossastro (ivi conferito dalle uve rosse eventualmente utilizzate; si ricordi che, per esempio, lo Champagne e lo Spumante Classico Italiano provengono da uve rosse o da un uvaggio di uve rosse e bianche).
Nel mosto parzialmente fermentato è pure concessa l’aggiunta di vitamina C in qualità di antiossidante (massimo 150 mg/l). Infine sono addizionabili alcuni sali con funzione disacidificante, come sarà illustrato più avanti.

Limitatamente ai mosti provenienti da zone in cui non è stato utilizzato solfato di rame sulle viti come anticrittogamico, è concessa un’aggiunta (non più di 20 mg/l) di questo sale a scopo deodorante.


Che cos’è la fermentazione alcolica?


È un processo biochimico che comporta la trasformazione degli zuccheri (glucosio e fruttosio) in alcol etilico (o etanolo), anidride carbonica e numerosi prodotti che vengono detti secondari poiché sono quantitativamente scarsi. Gli agenti di questo processo sono i lieviti, costretti a ciò dalla mancanza di ossigeno.

Durante la fermentazione alcolica si sviluppa anche calore, ma il processo può cessare se la temperatura perviene ai 35-38 0 C; in questo caso il mosto diventa preda di batteri che trasformano lo zucchero in mannite e fanno sì che si produca un liquido imbevibile.
Per prevenire questo pericolo (fermentazione mannitica) occorre arieggiare la cantina e fare scorrere un velo di acqua fredda sulla vasca di fermentazione; altri accorgimenti vengono adottati caso per caso nei singoli ambienti. Le più moderne vasche adibite alla fermentazione sono provviste di doppia camera ove scorre un liquido refrigerante o riscaldante. Di fatto nelle zone settentrionali può verificarsi il pericolo inverso e cioè che la fermentazione non inizi per la temperatura eccessivamente bassa (10° C): evidentemente in questo caso si rende necessario riscaldare la cantina e il mosto.
L’inizio della fermentazione alcolica è segnalato dal gorgoglìo prodotto dallo sviluppo del gas anidride carbonica; a causa di questo tipico rumore, in gergo la fermentazione viene detta ebollizione.


Quali sono i prodotti secondari più importanti della fermentazione alcolica?


I prodotti secondari della fermentazione alcolica sono quelli generati dal lievito mentre trasforma lo zucchero e pertanto essi sono costituiti da materiale (carbonio) che prima costituiva lo zucchero.

Di particolare importanza sono:
 glicerina (5 – 12 g/l), che conferisce morbidezza al vino;
— 2,3-butilen glicole, acetoina e diacetile, che contribuiscono a dare profumo al vino;
 acido acetico (0,2 – 0,5 g/l), che in dosi minime migliora il profumo del vino, mentre in dosi elevate (circa 1 g/l) conferisce odore di aceto; acido succinico, acido citramalico e minime dosi di acido lattico, che intervengono nel conferire odore e sapore al vino;
 aldeide acetica, che è utile ai fini organolettici se presente in dose minima.
Altri prodotti che si formano nel vino in minime quantità, ma non come prodotti secondari della fermentazione alcolica, sono:
 acido citrico, particolarmente utile per prevenire alcuni intorbidamenti;
 acido galatturonico, derivato dalle varie sostanze pectiche;
 acido lattico, che conferisce morbidezza al vino, poiché deriva dall’acido malico (come sarà detto più avanti) che è più aspro e più acido;
 alcol metilico (o metanolo), che deriva dalle sostanze pectiche (fortunatamente in quantità minime, essendo piuttosto tossico);
 mannite, presente normalmente in minima quantità; se è abbondante significa che il mosto (o il vino) è stato attaccato da batteri;

 alcoli superiori, che derivano dagli aminoacidi e sono importanti per il profumo che conferiscono quando si combinano con gli acidi, formando esteri; — furfurolo, che si forma dagli zuccheri pentosi.


Che cosa s’intende per cappello emerso, cappello sommerso?


Quando inizia la fermentazione comincia anche a svilupparsi gas, il quale tende a uscire dalla massa a causa del calore del mosto. Durante il cammino compiuto, il gas, uscendo dal mosto, trascina con sé e spinge verso l’alto tutte le sostanze che incontra e in particolare le bucce (vinacce). Si viene perciò a formare uno strato solido che galleggia sopra il mosto e che viene comunemente detto cappello emerso.

Questo resta in superficie per 3 o 4 giorni, dopo di che, essendo pregno di mosto, diventa pesante e a poco a poco si deposita al fondo del recipiente di fermentazione. Il pericolo che grava su questo tipo di vinificazione è quello dell’eccessivo contatto delle vinacce con l’aria, il che provoca acetificazione.

A volte si preferisce impedire l’affioramento delle bucce per evitare eccessivo contatto fra le vinacce e l’aria e per ridurre gli interventi di manodopera (come sarà detto nel paragrafo successivo); in tal caso nel tino (e, in genere, in ogni recipiente di fermentazione) viene disposto un graticcio che trattiene le vinacce circa 10 cm sotto il livello libero del mosto. Si dice allora che si ha il cappello sommerso. In questo caso appena inizia a formarsi il cappello lo si affonda e poi si dispone il graticcio (o griglia).


A che cosa servono e come si effettuano le follature e i rimontaggi?


Quando le vinacce, cioè le parti solide del mosto, affiorano a costituire il cappello emerso, esse vengono a contatto con l’aria e perciò diventano facile preda di alcuni batteri ossidanti. Questi batteri trasformano l’alcol etilico, grazie all’ossigeno presente nell’aria, in acido acetico, che conferisce al vino odore di aceto; in questo caso il vino non è più utilizzabile come tale. Per prevenire questa ossidazione batterica si effettuano le follature (nelle aziende di tipo familiare) e i rimontaggi (nelle aziende di maggiori dimensioni).

La follatura consiste nel disperdere le vinacce affiorate in seno alla massa del mosto, mediante un bastone, detto appunto follatore (se il contenitore è particolarmente piccolo il cantiniere disperde il cappello con le mani); il rimontaggio consiste invece nel disperdere le vinacce prelevando (con pompe) da un terzo a un quarto del mosto totale dal basso e facendolo ricadere a pioggia dall’alto sul cappello.
Nei moderni recipienti di fermentazione vi sono degli agitatori meccanici disposti a 1,5 – 2 m da terra. In alcuni tini di fermentazione, detti autovinificatori, i rimontaggi avvengono in modo automatico a tempi prefissati.
Le vinacce devono essere disperse due volte al giorno per prevenire correttamente l’ossidazione dell’alcol in acido acetico.

Oltre allo scopo principale ora illustrato, con la dispersione del cappello si conseguono anche altri vantaggi: distribuzione omogenea dei lieviti nella massa del mosto; dispersione rapida di una certa quantità di calore; allontanamento rapido del gas anidride carbonica; apporto al mosto di una certa quantità di ossigeno che favorisce la moltiplicazione dei lieviti. Tutte queste azioni hanno come conseguenza l’attivazione della fermentazione.


E’ meglio fermentare nel tino aperto o in quello chiuso?


Con il tino aperto vi è una più rapida dispersione del calore e perciò questo sistema è più adatto alle zone calde.

Occorre però tener presente che si rendono necessarie tempestive e ripetute follature (o dei rimontaggi) per evitare le eccessive ossidazioni; ma una certa quantità di aria viene comunque a contatto del mosto, alterando i lieviti e consentendo una maggior rapidità del processo fermentativo. Il contatto fra liquido e aria comporta inoltre una certa perdita di alcol che avviene per evaporazione.
Se il tino è chiuso, invece, il calore resta, ovviamente, più facilmente inglobato nella massa fermentante e le follature (o i rimontaggi) possono essere meno numerose (ne basta una al giorno), in quanto nel cappello di vinacce permane uno strato di gas anidride carbonica che protegge il vino dalle ossidazioni. Comunque l’unica follatura (o rimontaggio) praticata giornalmente va fatta all’aria, per favorire lo sviluppo dei lieviti. Le vasche di fermentazione moderne (in cemento o acciaio inox o plastica) sono munite di un chiusino superiore, che non viene serrato ermeticamente in modo da consentire l’uscita di una parte di gas anidride carbonica, mentre la restante parte di questo gas rimane sopra la massa in fermentazione, proteggendola dalla dannosa azione dell’aria.

In definitiva, si consiglia il tino aperto per le piccolissime aziende delle zone meridionali e il tino chiuso per le altre zone e per le aziende di medie o grandi dimensioni.


Conviene diraspare?


Contrariamente a quanto è avvenuto fino agli anni Cinquanta, oggi si tende a separare i graspi dal mosto in fermentazione. I graspi comunicano una maggior astringenza, che era molto gradita ai consumatori di allora ma non lo è più a quelli di oggi. Inoltre i graspi trattengono in parte il colore; anni fa questo fatto non rappresentava però un problema, poiché il prolungato contatto del mosto con le proprie bucce comportava una notevole estrazione dei pigmenti colorati, per cui una certa diminuzione di colore dovuta all’assorbimento sui graspi non costituiva uno svantaggio. Peraltro si è visto che, in determinati casi, l’intensità colorante è più elevata nei vini ottenuti da vinificazione con graspi, poiché si verifica un’interazione tra antociani e tannini dei graspi stessi.

Nel caso di uva ammuffita, gli enzimi (laccasi) rilasciati dalla muffa grigia (Botrytis cinerea) preferiscono attaccare e ossidare i polifenoli del graspo anziché i polifenoli coloranti, per cui il vino resta protetto in parte da un’alterazione nota come intorbidamento enzimatico (o casse ossidasica). Inoltre, se non viene effettuata la diraspatura, il vino risulta più tannico e perciò più resistente all’invecchiamento e agli attacchi batterici.
Certo è difficile conciliare la presenza di graspi con l’ottenimento di un prodotto di alta qualità: occorre una perfezionata tecnica di vinificazione, affinamento e conservazione.
Comunque nel caso del vino bianco si preferisce non diraspare in fase di pigiatura, in modo che la presenza dei graspi faciliti il successivo sgrondo; sia ben chiaro che la fermentazione si effettua successivamente senza graspi.

In presenza dei graspi la fermentazione alcolica è più attiva, essendo essi ricchi di lieviti.


Come si può controllare la fermentazione alcolica?


Il controllo della fermentazione si rende necessario per prevenire possibili suoi arresti ed eventuali attacchi batterici. Vari sono i parametri da osservare e da tenere sotto controllo:

 Densità; il mosto è ricco di zucchero e ha una determinata densità, poi, a mano a mano che diventa vino, il suo zucchero si trasforma in alcol, che è assai meno denso. Pertanto il valore della densità (massa volumica secondo la CEE) decresce in continuazione parallelamente al decrescere dello zucchero e all’aumento dell’alcol. All’inizio della fermentazione la densità è circa di 1, 100 g/ml, mentre al termine di questo processo non è superiore a 1,050 g/ml.
 Temperatura; è necessario controllarla due volte al giorno in modo che non superi i 35° – 37° C, poiché in tal caso i lieviti restano inattivati mentre i batteri iniziano, a loro volta, a trasformare gli zuccheri, senza produrre alcol bensì mannite, rendendo imbevibile il prodotto.

Un controllo che equivale a quello della densità consiste nel determinare la percentuale degli zuccheri oppure dell’ alcol; evidentemente, col procedere della fermentazione, gli zuccheri decrescono e l’alcol aumenta. Se i dati risultanti da due analisi successive, distanziate di 12 ore, sono uguali, il processo fermentativo può essere considerato esaurito, almeno nella sua fase più tumultuosa e attiva, come si rileva anche dalla cessata emissione di gas anidride carbonica.


Come avviene la fermentazione lenta?


Quando è cessata la fermentazione tumultuosa, si constata che il vino così ottenuto è ancora piuttosto dolce. Di fatto i lieviti hanno ridotto la loro azione per via del notevole lavoro compiuto in condizioni difficili, oltre tutto in presenza dei loro prodotti di rifiuto, quali l’alcol etilico e il gas anidride carbonica.

Il vino viene immesso nelle botti di conservazione (o in altri recipienti non di legno) ove trascorre l’inverno depurandosi, cioè illimpidendosi sempre più. In primavera, con l’aumento della temperatura e con una lieve ossigenazione del vino (avvenuta durante tutto il periodo e durante i travasi), i lieviti riacquistano vitalità, consumano tutto l’ossigeno e poi tendono a riprendere la fermentazione, trasformando gli ultimi residui zuccherini in alcol. Questo fenomeno è ovviamente poco intenso, essendo scarsi gli zuccheri, e anche piuttosto lento, essendo pure i lieviti poco numerosi o comunque poco attivi.


Che cosa vuol dire vinificazione con macerazione?


Questa vinificazione è quella che avviene in presenza delle vinacce (bucce, vinaccioli ed eventualmente graspi), ed è anche detta, da qualche autore, in rosso, poiché in genere è utilizzata per produrre vino rosso.

Le sostanze solide del graspo, macerando nel mosto, cedono una parte dei loro costituenti e in particolare vengono rilasciati nel mosto i pigmenti coloranti, i tannini e le sostanze aromatiche. La dissoluzione e la diffusione dei suddetti composti sono facilitate dal movimento della massa in fermentazione, oltre che dalle follature o dai rimontaggi. A mano a mano che la fermentazione procede, anche l’alcol e il calore prodotti contribuiscono a sciogliere nel mosto le sostanze presenti nelle vinacce.
La durata della macerazione dipende dal tipo di vino che si vuole ottenere: più corposo e colorato lo si desidera e più lunga sarà la macerazione (7-15 giorni); desiderando invece vini più leggeri è bene che la macerazione sia breve (1-4 giorni). Più breve è la macerazione più, in proporzione, il vino è colorato e poco tannico, poiché gli antociani fuoriescono prima dei tannini dalle bucce.

La temperatura è uno dei fattori più importanti per estrarre le varie sostanze dalle bucce durante la macerazione. Infatti per la macerazione dei vini rossi la temperatura più consona è di 25-30 0 C, poiché bisogna estrarre molti costituenti, mentre è di 20 °C circa per i vini bianchi che fermentano senza macerazione delle bucce.


Come si può ottenere un vino rosato?


Il vino rosato è in pratica un vino rosso molto leggero di corpo e scarso di colore.

Esso può essere ottenuto dalla vinificazione di uve in cui la buccia è poco ricca di colore (per esempio: Grignolino); oppure può essere ottenuto da un uvaggio, cioè dalla mescolanza di uve rosse e uve bianche. Il caso più frequente è invece quello dell’utilizzazione di uve rosse vinificate senza bucce o con breve macerazione delle vinacce. Infatti, anche se le bucce non sono presenti col mosto durante la fermentazione, avranno comunque ceduto un po’ di colore durante l’ammostamento; se le bucce restano invece qualche ora col mosto in fermentazione, cederanno una maggior quantità di colore rispetto al caso precedente, ma in dose limitata rispetto alla macerazione di qualche giorno come si fa per ottenere vino rosso. In quest’ultimo caso può succedere che il colore ceduto sia eccessivo e allora si può intervenire trattando il mosto in corso di fermentazione con carbone enologico (ma la legge consente questo trattamento solo per i mosti bianchi e i vini bianchi), che elimina in parte il colore.

Comunque, dopo il breve tempo di macerazione, il mosto viene separato dalle vinacce e inizia o prosegue la fermentazione senza queste parti solide.


Che cosa vuol dire vinificazione in bianco?


Significa che la fermentazione avviene con esclusione delle vinacce. In genere è utilizzata per produrre vino bianco, ma è anche una tecnica seguita per ottenere vini rosati.

Per ottenere vini bianchi, l’uva viene prima pressata con lieve intensità, specialmente se si tratta di uva rossa, e poi si separano le vinacce dalla parte liquida, la quale sarà messa nel tino di fermentazione.
Un altro sistema è quello di pigiare l’uva e poi sottoporre il mosto a una sgrondatura per separarne tutte le parti solide e ottenere la parte liquida, che fermenterà senza vinacce.
La vinificazione in bianco è normalmente più lenta, meno attiva, rispetto a quella con macerazione, poiché la maggior parte dei lieviti è rimasta sulle vinacce; inoltre questo tipo di vinificazione è condotto a temperatura di circa 20 °C contro i circa 30 °C di quella con macerazione.

In un caso particolare la vinificazione in bianco è utilizzata per produrre vino rosso: è il caso della termovinificazione, di cui sarà detto più avanti.


Vinificando in condizioni particolari (uva ammuffita, caldo, freddo), quali accorgimenti vanno adottati?


Nelle zone a clima caldo si corre il rischio di veder bloccata la fermentazione alcolica per inibizione dei lieviti, i quali alla temperatura di 37 °C circa cessano di metabolizzare lo zucchero. In queste zone è buona norma diraspare, per avere nel mosto una minor massa di lieviti e perciò una fermentazione meno attiva, con limitato sviluppo di calore; un’adeguata solfitazione concorre a limitare la tumultuosità della fermentazione e perciò limita anche l’eccessivo sviluppo calorico; come detto, il raffreddamento del mosto prima e durante la fermentazione si rivela quanto mai utile.

Nelle regioni fredde conviene utilizzare dosi più modeste di anidride solforosa. Particolarmente efficace si dimostra l’aggiunta alla massa del mosto di un 3-5% di mosto di avviamento (mosto addizionato di lieviti selezionati che avviano subito la fermentazione); ovviamente in questo caso i lieviti devono essere stati selezionati per la resistenza al freddo.

Se le uve sono molto ammuffite, si impone una cernita in modo da separare quelle in peggiori condizioni ed eventualmente fare due tipi di vino; in ogni caso occorre usare molta anidride solforosa o, se l’azienda lo consente, ricorrere alla termovinificazione.


Che cos’è la fermentazione alcolica degli aminoacidi?


Si tratta di una fermentazione a carico delle sostanze azotate note come aminoacidi, con formazione di alcoli superiori.

L’attacco dagli aminoacidi viene effettuato dai lieviti quando essi hanno consumato tutto l’azoto dei sali di ammonio; se a questo punto non trovassero altro azoto non potrebbero più proseguire la fermentazione, mentre, stante la presenza degli aminoacidi, possono trovarvi ancora l’alimento azotato.

Come conseguenza di questa trasformazione si formano gli alcoli superiori, che hanno dimensioni maggiori rispetto all’alcol etilico (quindi superiori all’alcol etilico). Detti alcoli sono assai profumati, ma la quantità che si viene a formare nel vino (non più di 0,5 g/l) non è sufficiente per conferire profumo; tuttavia quando gli alcoli superiori si combinano con gli acidi formano delle sostanze, dette esteri, il cui profumo è intenso e gradito.


Che cos’è la fermentazione malo-lattica?


È una fermentazione operata dai batteri sul vino. Avviene, di norma, nella primavera successiva alla vendemmia, in concomitanza dell’aumento di temperatura (superiore ai 15 °C).

In questo processo l’acido malico è trasformato in acido lattico, con il risultato che il vino diventa meno acido, più morbido, poiché il primo acido è più forte (cioè più acido) del secondo; inoltre una parte dell’acido malico è trasformata in composti non acidi (per esempio: diacetile) e il potassio che era legato all’acido malico va a salificare l’acido tartarico, che in parte precipita. In pratica è una disacidificazione biologica gradita nei vini rossi troppo acidi e nei vini rossi invecchiati; non è invece gradita nei vini bianchi, ove un buon grado di acidità conferisce la freschezza e mantiene il fruttato.
Per impedire che i batteri lattici effettuino la degradazione dell’acido malico, si mantiene la cantina a temperatura inferiore a 15 °C, si conserva nel vino una dose elevata di anidride solforosa libera (30 mg/l circa), si anticipano i travasi in modo che i batteri non vi traggano alimento.
Viceversa occorre comportarsi per favorire detta fermentazione, tenendo anche presente che si è dimostrata utile l’aggiunta al vino nuovo di una parte di vino ottenuto con torchiatura (primo torchiato), essendo questo ricco di alimento per i batteri.

Avvenuta questa fermentazione, il vino deve essere addizionato di anidride solforosa e travasato.


Che cos’è la termovinificazione?


E’ un metodo di vinificazione che prevede il riscaldamento dell’uva o del mosto con lo scopo di distruggere le muffe e, in determinati casi (uve poco mature), di estrarre sostanze coloranti dalle bucce. Uno dei vantaggi di questa tecnica è quello di arricchire di antociani il mosto, contenendo a bassi livelli i tannini, e conseguentemente di limitare la fermentazione a pochi giorni.

La temperatura di riscaldamento varia tra i 50 e gli 80 °C a seconda che il tempo di durata del trattamento sia di 2 ore o di 15 minuti. In pratica il riscaldamento provoca la macerazione delle bucce; poi il mosto viene raffreddato mentre le bucce sono allontanate, per cui la fermentazione sarà attuata in bianco. Naturalmente l’ alta temperatura distrugge tutti i microrganismi e gli enzimi, il che comporta la necessità di aggiungere lieviti selezionati e consente, perciò, anche un risparmio di anidride solforosa.

Si ottiene un vino più colorato, più corposo, con basso livello di acido acetico e una quantità di alcol leggermente superiore (0,2 – 0,3 gradi) a quella del vino ottenuto con la normale tecnica, inoltre le varie partite sono uniformi. Bisogna ammettere però che non si raggiungono elevati livelli qualitativi.


Che cos’è la vinificazione continua?


È una tecnica di vinificazione adottata dai grandi complessi enologici che mirano soprattutto a un risparmio di manodopera. Frequentemente viene abbinata alla termovinificazione.

Per effettuare la vinificazione continua si usa l’ autovinificatore che è una vasca di acciaio inox o vetroresina di grandi dimensioni (fino a qualche migliaio di quintali di capienza), che viene riempita di mosto in presenza di mosto di avviamento. In capo a 3-4 giorni, la massa del mosto è in piena fermentazione e possiede già il 4-5% di alcol; un tale quantitativo di alcol funge da inibitore verso tutti i microrganismi eccetto i lieviti ellittici. A questo stadio, dall’alto del recipiente viene tolto il mosto in piena fermentazione e posto in altro recipiente ove terminerà il processo fermentativo in assenza delle vinacce; nello stesso tempo, dal basso viene immesso nuovo mosto. Ciò avviene in continuo, cioè quasi senza interruzione (dopo i primi 3-4 giorni): dall’alto si toglie mosto in fermentazione e dal basso si immette mosto da fermentare. In pratica si raggiunge un grado alcolico più elevato che non seguendo altri sistemi, per il fatto che il mosto viene fermentato solo dai lieviti ellittici che hanno resa elevata. Il rimontaggio delle vinacce avviene automaticamente e la separazione dei vinaccioli è favorita dalla forma conica che presenta nella parte basale la vasca di fermentazione; negli autovinificatori più moderni anche le bucce vengono scaricate dal basso con i vinaccioli. Questi due aspetti comportano un evidente risparmio di manodopera.
Il tempo di macerazione, cioè il contatto fra bucce e liquido, è assai ridotto (fino a un ottavo) rispetto al sistema di vinificazione classico, ma l’estrazione del colore dalle bucce si ottiene allo stesso modo, mentre vengono estratti meno tannini. Si ottiene quindi un vino col grado di colore desiderato, ma morbido grazie alla scarsità di tannini.
Il tipo di autovinificatore maggiormente diffuso è detto fermentino.


Che cosa vuol dire macerazione carbonica?


Questo metodo di vinificazione è anche detto fermentazione aromatica, per il fatto che ne risulta un vino notevolmente odoroso.

Consiste nel riempire di uva intatta un contenitore e poi chiuderlo ermeticamente per 7-20 giorni a temperatura di circa 30 °C, previa saturazione con gas anidride carbonica. Una minima parte di uva (2-3%), quella più in basso, resta schiacciata dal peso dell’uva soprastante e libera mosto che inizia a fermentare producendo alcol e gas anidride carbonica; questo gas (che quindi può anche non essere appositamente introdotto) satura rapidamente l’ambiente, per cui le cellule intatte dell’uva intera vengono costrette a modificare il loro metabolismo (non si dimentichi che le cellule della buccia dell’uva sono vive!), effettuando un tipo di fermentazione intracellulare (o autofermentazione). In particolare, a causa dell’ambiente asfittico, viene modificata la permeabilità delle bucce, per cui queste cedono facilmente alla polpa i loro vari costituenti e in particolare i pigmenti coloranti. In altri termini, avviene la macerazione malgrado l’integrità del grappolo.
Alla fine del periodo di permanenza nella vasca satura di anidride carbonica, l’uva contiene una quantità di acidi assai inferiore rispetto all’origine e in particolare è stato consumato acido malico; inoltre vengono formati nuovi componenti odorosi, che ricordano la ciliegia e la vaniglia oltre a un intenso fruttato dell’uva.
Ora tutta la massa viene pigiata e posta nel tino di fermentazione ove, in capo a 2 o 3 giorni, terminerà la trasformazione degli zuccheri in alcol. Il vino ottenuto matura in breve tempo, tanto che deve venire imbottigliato entro la fine di dicembre.

Non pare che la macerazione carbonica dia risultati utili nei vini bianchi. Assai diffusa è questa tecnica nella zona del Beaujolais (ove si utilizza uva Gamay) che produce il vino primeur; in Italia questo vino è detto novello o fiore o giovane.


Che cos’è la criomacerazione ed è conveniente ai fini della qualità?


È una tecnica di macerazione che consiste nel raffreddare il mosto, ottenuto tramite pigia-diraspatura a 5 – 8 °C per 10 – 24 ore. Durante la macerazione alla bassa temperatura la bucce cedono molte Sostanze odorose aromatiche e pochi polifenoli, mentre sono inibiti gli enzimi.

Si ottiene un vino ricco di aromi primari, cioè quelli provenienti dal vitigno, povero di tannini e di colore; in sostanza si avrà un vino morbido, poco corposo come desidera il consumatore di oggi, ma con il grande vantaggio della presenza di un profumo (o meglio aroma) che caratterizza il vino poiché rispecchia l’uva dal quale è prodotto. Infine questo vino risulta piuttosto stabile alle ossidazioni essendo stati inibiti gli enzimi e quindi tende a mantenere a lungo un bel colore.


Che cos’è il governo alla Toscana o all’uso Chianti?


È una tecnica di vinificazione piuttosto diffusa in Toscana, specialmente nella zona del Chianti, che ha lo scopo di rendere prontamente bevibile il vino.

Praticamente una parte di uva viene vendemmiata qualche giorno in anticipo rispetto al momento consigliato per la vendemmia e poi viene fatta appassire. Nel mese di dicembre quest’uva viene pigiata e immessa nel vino appena prodotto, in proporzione del 5 – 10%. A volte questo governo è fatto anche in primavera e viene detto rigoverno. La mescolanza del mosto nel vino giovane fa riprendere una fermentazione non tumultuosa e che si protrae per circa un mese.
Il vino così ottenuto è detto di pronta beva e risulta fresco, vivace, grazie a un buon contenuto in anidride carbonica appena sviluppata, e nello stesso tempo anche piuttosto morbido per la presenza di una buona dose di glicerina. Anche il vino Rosso Conero è prodotto con la pratica del governo.

Questi vini vengono posti al consumo entro l’anno successivo alla vendemmia e riportano in etichetta il termine governato.


Quali sono le differenze principali fra il vino rosso e il vino bianco?


La differenza più evidente tra il vino bianco e quello rosso è data ovviamente dal colore. Questo è conferito dagli antociani nel vino rosso giovane, da tannini e tannini-antociani nel vino rosso che ha perso la colorazione rossa netta per assumere tonalità aranciate; nel vino bianco si presumeva che i flavoni, responsabili del colore giallo dell’uva, lo fossero anche del colore nel vino, mentre qui se ne constata l’assenza (in pratica questi composti sono precipitati o ossidati prima della formazione del vino). Alcuni autori addebitano ai leucoantociani, legati a due o a tre molecole per volta, cioè dimeri e trimeri, il colore giallo. Se il vino presenta una nota verdastra significa che l’uva è stata raccolta non in piena maturità, quando la clorofilla è ancora evidente nelle bucce.

Il complesso di sostanze solide disperse nel vino si chiama estratto ed è il più importante costituente del corpo del vino. Nei vini bianchi si ritrovano in media 19 g/I di estratto, nei rossi 21 g/l. Anche le ceneri sono più abbondanti nei vini rossi (2,4 g/l) che nei vini bianchi (1,7 g/l); estratto e ceneri sono più abbondanti nei rossi essendo questi provenienti da macerazione delle bucce. Per quanto riguarda gli elementi minerali, ovviamente più abbondanti nei vini rossi, si nota che il calcio prevale nei vini bianchi, ove, peraltro, può far insorgere problemi di intorbidamento.

Normalmente i vini bianchi contengono un maggior grado di acidità e in particolare più acido malico, poiché essi sono apprezzati soprattutto per la loro freschezza, che deve essere in genere superiore a quella dei vini rossi.


A cosa servono i travasi?


Fondamentalmente queste operazioni hanno lo scopo di mettere il vino nella migliore situazione sanitaria, indispensabile per la sua corretta conservazione. Infatti il travaso porta alla separazione del vino limpido dal suo deposito feccioso.

Il primo travaso si rende necessario al termine della fermentazione alcolica ed è detto svinatura; viene qui separata dal vino una feccia costituita dal materiale più vario: frammenti di buccia e vinaccioli, sali vari (bitartrato potassico o cremortartaro, sali dell’acido malico, ecc.), colloidi, lieviti e altri microrganismi morti e via dicendo.
Il passaggio del vino da un recipiente a un altro deve essere effettuato lentamente, in modo da non rimandare in sospensione la feccia. Inoltre è necessario che i travasi siano tempestivi, poiché in caso contrario la feccia conferisce al vino sapori e odori sgradevoli.
Dopo la svinatura il primo travaso si fa, in genere, all’inizio di dicembre, ma lo si anticipa se il vino è particolarmente torbido; il secondo travaso si effettua nel mese di marzo, in modo da anticipare la ripresa dell’attività dei lieviti e dei batteri in concomitanza con l’aumento della temperatura della nuova stagione; un terzo travaso si pratica all’inizio del mese di giugno, precedendo, nuovamente, il rialzo termico estivo; un quarto travaso viene effettuato in settembre-ottobre, appena prima della vendemmia. Se necessario si travasa anche in dicembre.
Evidentemente un vino conservato a lungo continua ad autoillimpidirsi, depositando sostanze fecciose che vanno separate con travasi anche nel secondo anno, nel terzo e nei successivi; va da sé che, col tempo, i travasi sono meno frequenti, poiché sempre più scarsa è la sostanza che passa dallo stato liquido allo stato solido depositato.

Prima di ogni travaso conviene effettuare la prova all’aria per conoscere lo stato di salute del vino; a questo scopo si riempie un bicchiere di vino e lo si lascia all’aria per 12 ore. Se nel vino non si notano cambiamenti allora significa che il vino è sano e il travaso può essere effettuato in due riprese, cioè il vino è immesso in un mastello e da qui al contenitore di conservazione; mentre se si notano alterazioni di colore, iridescenze o, peggio, un velo batterico, si tratta di un vino debole, che deve essere protetto con anidride solforosa e deve essere travasato da un recipiente all’altro direttamente senza contatto con l’aria. Buona norma è anche quella di un ‘analisi organolettica prima del travaso. Ai travasi all’aria si ricorre anche per eliminare difetti di odore.


Qual è lo scopo delle colmature?


Durante la permanenza nelle botti si verifica un calo del livello del vino, In inverno la temperatura della cantina è di circa 10 – 12 °C e ciò comporta una diminuzione del livello del vino per contrazione di volume; negli altri periodi è invece intensa l’evaporazione del vino, specialmente durante il primo anno. Un calo del 5% è normale e può arrivare, nei grossi contenitori, quasi al 10%; mentre negli anni successivi l’evaporazione si stabilizza attorno al 3 – 4%.

E’ chiaro che lo spazio che era occupato dal vino evaporato viene rimpiazzato dall’aria, la quale si dispone al di sopra del livello raggiunto dal vino. Quest’aria con il suo ossigeno favorisce lo sviluppo e l’attività dei microrganismi detti aerobi (cioè che abbisognano di aria per la loro vita): si tratta in pratica di un tipo di lievito che provoca la malattia detta fioretta e di vari batteri che causano la malattia nota come spunto-acescenza. Per evitare detti inconvenienti occorre proteggere il vino dall’aria, colmando lo spazio lasciato libero dal vino evaporato.

La colmatura è praticata aggiungendo vino di volta in volta secondo necessità. Il mezzo migliore per provvedere a questa bisogna è l’uso dei tappi colmatori, posti nel foro di cocchiume della botte, i quali consentono con un semplice colpo d’occhio di controllare il livello del vino. Nei recipienti metallici è oggi effettuata una compensazione del vuoto eventuale con gas inerte (azoto o anidride carbonica o loro miscela). Nelle vasche in vetroresina vi è un coperchio mobile che si adatta, pneumaticamente, al livello del vino. Nel caso di alcuni vini (per esempio: Malvasia di Bosa, Vernaccia di Oristano, Sherry) le botti sono lasciate scolme in modo che determinati lieviti provochino una rapida e intensa ossidazione, che conferisce al prodotto un odore e un sapore del tutto tipici.


Che cos’è il grado alcolico del vino?


Il grado alcolico del vino è dato dalla percentuale di alcol etilico (che è misurata in millilitri, alla temperatura di 20 °C).

Questa quantità di alcol è anche detta alcol svolto o alcol effettivo. Quindi un vino di 11° contiene l’ 11% di alcol (cioè 110 millilitri di alcol su un litro di vino), uno di 12° contiene il 12% di alcol, e così via. Per legge i vini da tavola devono contenere almeno il 9% (cioè 9 gradi alcolici) di alcol.
Se il vino contiene ancora dello zucchero, questo, almeno in teoria, potrebbe essere fermentato e sviluppare alcol; è questo il grado alcolico potenziale. La somma dell’alcol effettivo e di quello potenziale è detta alcol totale o grado alcolico complessivo. Per ogni singolo vino di qualità (D.O.C. e D.O.C.G.) la legge pre scrive un valore minimo di gradazione alcolica complessiva (per esempio: Barolo, minimo 13°; Chianti, minimo 11,5°; Chianti classico, minimo 12°).

Il grado alcolico può anche essere definito titolo alcolometrico volumico.


E’ possibile correggere il grado alcolico?


La legge consente la correzione del grado alcolico per un aumento massimo di 2 unità.

Il sistema più diffuso per aumentare la gradazione alcolica di un vino è quello di effettuare un taglio, cioè mescolare al vino da correggere un vino a elevato contenuto alcolico; frequentemente si usa a questo scopo un vino meridionale. Naturalmente il vino che ne risulta acquisirà in parte i caratteri organolettici del vino meridionale.
Per ovviare al suddetto inconveniente si può aumentare il grado alcolico mediante una parziale concentrazione del vino, sottoponendolo a temperature di
5 – 15 °C in modo che parte dell’acqua contenuta nel vino geli e possa quindi essere asportata; in questo caso il volume iniziale del vino non deve essere diminuito di oltre il 20%.
Per i vini liquorosi e quelli aromatizzati si può ricorrere all’aggiunta diretta di alcol.

In ogni caso è consigliabile effettuare una prova su campioni piccoli prima di procedere alla correzione di tutto il prodotto, il quale deve essere comunque controllato a correzione avvenuta.


Quali tipi di acidità si trovano nel vino?


Vi sono tre tipi di acidità nel vino:

— L’acidità volatile, che è data dall’insieme degli acidi molto evaporabili, detti appunto volatili. Di fatto questo tipo di acidità viene determinato in laboratorio: il vino è fatto bollire per distillarlo e nello stesso tempo è investito da una corrente di vapore acqueo; infatti si dice che viene determinata l’acidità volatile in corrente di vapore. La maggior parte dell’acidità volatile è data dall’acido acetico. Nel vino appena prodotto l’acidità volatile si aggira attorno a 0,2 – 0,5 g/I e poi aumenta un po’ con l’invecchiamento, poiché i batteri acetici possono ossidare l’alcol etilico. Se questo fenomeno è intenso, per eccessiva presenza di aria a contatto del vino, il valore dell’acidità volatile diviene esagerato e il vino sa di aceto. La legge pone un limite massimo di acidità volatile di 1,08 g/I per i vini bianchi e rosati e di 1,20 g/I per i vini rossi (con qualche eccezione).
— L’acidità fissa è data dall’insieme degli acidi che non sono distillati quando il vino è posto nelle condizioni di cui sopra; è espressa in acido tartarico. L’acidità fissa del vino è uno dei fattori che consentono la protezione dagli attacchi batterici. Inoltre conferisce al vino la freschezza di sapore.

— L’acidità totale è data dalla somma dei due tipi di acidità succitati: acidità volatile più acidità fissa.


E’ possibile correggere l’acidità del vino?


Se un vino è poco acido di acidità fissa o di acidità totale, la legge ne consente la correzione aumentativa mediante aggiunta di acido tartarico o mediante taglio con un vino più acido.

Se l’acidità totale non è almeno di 4,5 g/l il vino da tavola non è commerciabile; tuttavia per essere corretto deve avere almeno 3 g/l di acidità totale. Per quanto concerne i vini D.O.C.G. la legge prevede per ognuno un determinato valore di acidità totale (per esempio: Gattinara 5,5 – 8%; Chianti 5 – 7,5%; Barolo 5,5 – 8%).

Se un vino risulta troppo acido, può non essere gradito dal punto di vista gustativo e perciò conviene effettuare una correzione diminutiva che renda il vino più morbido. Nella zona CIII non è possibile effettuare la correzione diminutiva dell’acidità fissa; nelle altre zone si pratica mediante un taglio o mediante l’aggiunta di determinati sali: tartrato neutro di potassio, carbonato di calcio, carbonato acido di potassio. Limitatamente ai vini speciali, l’acidità fissa può essere diminuita mediante trattamento con resine scambiatrici di ioni.


Che cosa vuol dire stabilizzare il vino?


Il vino tende naturalmente a illimpidirsi, sia a causa della gravità che fa depositare le sostanze pesanti sia a causa di fenomeni chimici e chimico-fisici, in virtù dei quali precipitano il bitartrato potassico e i sali di calcio, flocculano e precipitano colloidi proteici, polifenolici, salini.

Nella primavera successiva alla vendemmia il vino si presenta infatti limpido. Tuttavia questa situazione non è garantita anche per il futuro, potendo il vino andare incontro a svariate situazioni che provocano il suo intorbidamento. Per esempio è sufficiente un abbassamento della temperatura per causare una precipitazione di bitartrato potassico o di pigmenti coloranti; una variazione di temperatura (riscaldamento o raffreddamento) provoca altresì con estrema facilità una coagulazione delle proteine. L’arieggiamento può essere causa di un intorbidamento per formazione di fosfato ferrico, se non addirittura per sviluppo di batteri aerobi; viceversa un ambiente che esclude l’aria in modo assoluto (ambiente riducente) favorisce l’intorbidamento per la formazione di solfuro rameico.

Affinché il produttore sia sicuro che il vino posto in commercio sia limpido, e tale si mantenga nel tempo, può effettuare vari trattamenti per prevenire (o curare) tutte le cause di possibili intorbidamenti o precipitazioni, cioè può stabilizzare il prodotto prima di inviarlo al consumo.


In quali modi si possono prevenire i depositi salini?


Innanzi tutto occorre sapere che il bitartrato potassico precipita e deposita spontaneamente a mano a mano che procede la fermentazione alcolica, poiché l’alcol tende a rendere meno solubile il sale in questione.

Anche il freddo della cantina rende più insolubile il bitartrato, per cui, avanzando la stagione fredda che segue la fermentazione, il sale di potassio continuerà a depositare vieppiù. Per prevenire questi intorbidamenti in bottiglia ci si può avvalere di vari mezzi e sostanze: refrigerazione (—4 0C per 10 giorni), che fa depositare rapidamente tutto il bitartrato (che precipiterebbe lentamente) poi separato tramite travaso (e filtrazione); acido L tartarico, che si lega al potassio rendendolo molto insolubile per cui precipita rapidamente; acido metatartarico (massimo 200 mg/l), che impedisce tutte le precipitazioni essendo un anticristallizzante, cioè non consente che si formi il primo nucleo di cristallo del sale, per cui non si possono formare quelli successivi e tutto il sale rimane sempre disciolto; bitartrato di potassio, che messo nel vino funge da germe di cristallizzazione, per cui tutto il sale di potassio già presente nel vino, che precipiterebbe lentamente, precipita con rapidità, dopo di che viene separato mediante travaso e filtrazione.
I sali di calcio nel vino sono ancora più insolubili di quelli di potassio e ciò, specialmente nel vino bianco, comporta seri problemi. I recipienti di cemento non opportunamente rivestiti cedono vari mg di calcio. Le uve attaccate da muffa (Botrytis cinerea) cedono all’uva acido mucico che nel vino si lega al calcio, provocando gravi intorbidamenti. Il calcio non causa problemi se è contenuto in quantità inferiore a 50 mg/l. Per ovviare ai problemi provocati da questo elemento, il vino può essere trattato con: acido L tartarico, che scioglie il sale di calcio; acido tartarico racemico, che si lega al calcio formando un sale molto insolubile che precipita e può essere separato dal vino mediante travaso (e filtrazione) prima dell’imbottigliamento; acido metatartarico, come già detto.

Anche il ferro può provocare intorbidamento se presente in quantità superiore a 10 mg/l e se il vino è sottoposto a ossidazione, cioè ad arieggiamento eccessivo, si viene a formare il fosfato ferrico (biancastro — casse blu) o il tannato ferrico (nero violaceo casse bianca). Il rame invece, se presente in quantità superiore a 0,5 mg/l, provoca facilmente intorbidamento se il vino è in ambiente ridotto, cioè in assoluta mancanza di aria; in questo caso (in genere in bottiglia) si forma solfuro rameico, il quale conferisce un intorbidamento biancastro lattiginoso che a poco a poco precipita con deposito bruno-rosso (casse ramosa). Per prevenire o curare efficacemente gli intorbidamenti e i depositi dovuti a ferro e rame, il vino è addizionato di ferrocianuro potassico, che si lega ai due elementi in questione, formando un deposito; un travaso, con successiva filtrazione, consente di separare il vino dal deposito.


Che cos’è la rottura o casse ossidasica?


E’ un intorbidamento causato dalla vinificazione di uva botritizzata, cioè ammuffita a causa della Botrytis cinerea.

Il termine casse, ormai molto in uso, è francese e significa proprio rottura; si sottintende rottura del colore, infatti il vino si presenta iridescente con netto inscurimento della tonalità. L’agente della rottura del colore è un enzima (la laccasi) che ossida rapidamente e intensamente i polifenoli (specialmente i pigmenti coloranti) se l’ambiente è sufficientemente aerato: ecco perché il vino appena versato nel bicchiere può essere perfettamente limpido e cassare nel volgere di poco tempo, mezz’ora o anche meno.
Per cautelarsi da quest’alterazione, prima dell’imbottigliamento conviene procedere alla prova dell’aria, cioè lasciare un bicchiere di vino scoperto per 12 ore e vedere se in capo a tale tempo esso si altera o no. In caso di alterazione si rende necessario trattare tutto il vino con una buona dose di anidride solforosa, che svolge una funzione protettiva essendo un antiossidante.

I vini ossidati assumono un odore e un sapore che ricordano il vino Marsala e il vino Madera e perciò sono anche detti marsalati o maderizzati se l’ossidazione è spinta.


La limpidezza del vino può essere disturbata da colloidi quali proteine e tannini?


I colloidi sono sostanze che, date le loro notevoli dimensioni (in genere di 1 – 100 nm) e la presenza di cariche elettriche, non sempre lasciano il vino completamente limpido e trasparente. Quasi tutte le sostanze colloidali del vino presentano carica elettrica negativa, mentre le proteine assumono carica positiva.

In particolare i tannini possono provocare intorbidamento se si combinano con le proteine. Se il vino è sottoposto a bassa temperatura (4° C per 5 – 10 giorni) o ad alta temperatura (70° C per 2 ore o 30° C per alcuni mesi), le proteine vengono modificate nella loro struttura, cambiano conformazione, sono cioè denaturate. Così modificate, le proteine divengono facilmente coagulabili a opera del tannino; in pratica c’è un’attrazione reciproca dovuta alla carica positiva del colloide proteico e alla carica negativa del colloide tannico. Il deposito è costituito da piccoli granuli irregolari e amorfi.
La proporzione fra i due colloidi non è fissa: a bassa temperatura si ritrova una maggior quantità di proteine, mentre più il vino è acido maggiore è il deposito totale dei due colloidi.

Per verificare se il deposito è dovuto alle due SOStanze summenzionate, è sufficiente trattarlo con acido cloridrico, che è in grado di scioglierlo.


Che cosa s’intende per collaggio o chiarificazione?


Il termine collaggio deriva dal francese collage, cioè aggiunta di un composto avente natura collosa, vale a dire colloidale. Chiarificare il vino significa rendere il vino limpido mediante aggiunta di un collante (o chiarificante); in pratica quindi collaggio e chiarificazione sono sinonimi.

Sostanzialmente la pratica del collaggio consiste nell’immettere nel vino una sostanza colloidale di carica elettrica opposta a quella della sostanza che nel vino è causa di intorbidamento. Le due sostanze (quella del vino che provoca intorbidamento e quella aggiunta), avendo segno opposto, si attraggono reciprocamente, flocculando e precipitando. Un travaso e una filtrazione separeranno il deposito dal vino.
Per asportare dal vino i colloidi a carica positiva si aggiungono la bentonite, oppure il caolino o la silice colloidale o il tannino. Per asportare i colloidi a carica negativa, i collanti impiegati sono la colla di pesce (o ittiocolla), la caseina (o, meglio, caseinato potassico), l’albumina, la gelatina, il sangue di bue defibrinato e inoltre un tipo di silice colloidale avente carica positiva.
La gomma arabica è adatta a prevenire ogni tipo di intorbidamento colloidale in quanto avvolge le singole particelle (micelle) di colloide e non ne consente la reciproca attrazione, evitando quindi la loro flocculazione e il deposito; si dice che la gomma arabica svolge azione di colloide-protettore.
Per i vini bianchi è particolarmente adatto il caseinato potassico.

Se il collante aggiunto al vino è in leggero eccesso rispetto al necessario, si formerà un intorbidamento causato da questo sovrappiù: è la cosiddetta ipercollatura o surcollaggio (facilmente verificabile nei vini bianchi, praticamente privi di tannino, trattati con gelatina). Per evitare questo inconveniente, è consigliabile aggiungere una piccola dose di tannino o bentonite prima di aggiungere i chiarificanti tipo albumina, gelatina, colla di pesce.


A quale scopo si filtra il vino?


Mediante la filtrazione si consegue rapidamente 1a limpidezza e perciò si può porre con un certo anticipo in vendita il vino. La filtrazione si rende necessaria anche per separare i depositi formatisi in seguito ai trattamenti collanti.

Il filtrato dolce è un mosto ottenuto previe ripetute filtrazioni.
I filtri possono agire per:
— setacciamento: cioè vengono trattenute nel filtro tutte le sostanze del vino le cui dimensioni sono superiori a quelle dei pori presenti nel filtro;
— adsorbimento: sono trattenute le sostanze del vino la cui carica elettrica è opposta a quella del filtro; — ritenzione in profondità: vengono trattenute particelle anche più piccole dei pori del filtro, in quanto restano intrappolate tra i meandri costituiti dall’intreccio delle fibre costituenti il filtro.
Per aumentare la capacità di filtrazione, ottenere la costanza del flusso, favorire la rimozione del deposito e la riattivazione del filtro, si impiegano dei coadiuvanti o ausiliari di filtrazione; si tratta di sostanze inerti dal punto di vista chimico (che pertanto non reagiscono col vino), quali filtrina o farina fossile, perlite, cotone, cellulosa, ecc.
I tipi di filtrazione effettuabili sono diversi a seconda dello scopo prefisso:
— sgrossante o sfecciante: è la filtrazione praticata sui vini giovani e ricchi di sostanze intorbidanti;
— ad alluvionaggio: è una filtrazione adatta per illimpidire grandi quantità di vino;
— brillantante: ha lo scopo di rendere il vino limpidissimo (cioè brillante), avvalendosi di strati filtranti costituiti da cartoni di cellulosa; è in genere applicata su vino già filtrato ad alluvionaggio con farina fossile; — sterilizzante o microporosa: è una filtrazione che ha lo scopo di eliminare dal vino tutti i microrganismi che vengono trattenuti dai piccolissimi pori del filtro (inferiori a 1 nm).
Di recente concezione sono l’ultrafiltrazione e la filtrazione tangenziale, con le quali vengono trattenute anche alcune proteine e una parte di polifenoli, con buona resa di filtrazione.
Il vino filtrato risulta stanco, spento, a causa di perdita di anidride carbonica e dell’inglobamento di aria; tuttavia si tratta di un difetto transitorio che scompare nel giro di 1 o 2 giorni, in quanto il vino si arricchisce naturalmente di una certa quantità di anidride carbonica presente nell’aria.

Quando viene impiegata la centrifugazione in enologia?


La centrifugazione è in sostanza una tecnica applicata al mosto per ottenere una sfecciatura adeguata e rapida; è pure applicabile al vino per conseguire un rapido seppur grossolano illimpidimento,

Di fatto, quando il vino è sottoposto all’azione della forza centrifuga (4000 + 5000 giri al minuto), ne vengono separate le particelle più pesanti come i residui fecciosi, cioè le particelle che hanno peso specifico superiore a quello del vino. Tuttavia questa limitazione viene superata aggiungendo al vino, prima di centrifugarlo, un chiarificante. La tecnica in questione è anche impiegata in sostituzione della filtrazione sul vino sottoposto al collaggio.

Una particolare e caratteristica applicazione della centrifugazione è quella sul mosto del Moscato; in questo caso viene alternata alla filtrazione, con lo scopo di separare dal mosto (o dal vino) la maggior parte dei lieviti e delle sostanze azotate, rendendo il prodotto infermentabile.


Perchè a volte si pastorizza il vino?


La pastorizzazione è una pratica stabilizzante nei confronti degli intorbidamenti provocati dai microrganismi e dagli enzimi.

Questa pratica consiste nel riscaldare il prodotto a temperatura di 75 – 80° C per 15 secondi. La pastorizzazione può essere effettuata sul vino prima dell’imbottigliamento oppure si può pastorizzare il vino già imbottigliato.
Per quanto riguarda il vino spumante, è molto seguita una specie di pastorizzazione detta inattivazione termica, che consiste nel riscaldare lo spumante imbottigliato alla temperatura di 40° C per 2 ore; è questo un sistema ideato da Carpené nel 1936. Simile a quello ora citato è il sistema Paronetto, che prevede un riscaldamento a 40 – 42° C per 72 ore; con questa tecnica sembra che i lieviti vengano lisati e pertanto dalle cellule fuoriescono sostanze che trasmettono al vino un odore gradevole.

La tecnica che sembra dare i migliori risultati, sia nella distruzione di microrganismi ed enzimi sia nel non ingenerare odore e sapore di cotto e incupimento del colore, è quella della pastorizzazione lampo, che consiste nel riscaldare il vino a 105 – 110° C per qualche secondo.


Perché il vino si può ammalare?


A meno che non sia stato pastorizzato, il vino contiene microrganismi che possono manifestare la loro presenza attaccando zuccheri e acidi. Se lieviti e/o batteri riprendono la loro attività, oltre a provocare intorbidamento causano vere e proprie malattie. Evidentemente occorre agire soprattutto preventivamente, curando l’igiene dei locali, dei contenitori vinari e degli attrezzi.

I vini più soggetti ad ammalarsi sono quelli cosiddetti deboli, cioè i vini poco acidi, poco alcolici e poco tannici; altre caratteristiche dei vini facilmente preda dei microrganismi sono la presenza di zuccheri e di sostanze azotate, cioè di quei composti che costituiscono l’alimento dei lieviti e dei batteri. La feccia che si forma costantemente nel vino è pure un substrato particolarmente adatto allo sviluppo dei microrganismi; quindi si rivelano assai utili i travasi fatti per tempo.
Per quanto concerne la cura delle malattie, occorre innanzi tutto distruggere i microrganismi mediante opportuna pastorizzazione, poi eventualmente far rifermentare il vino (con un’aggiunta di mosto) in modo da eliminare odori e sapori anomali e infine procedere a un’aggiunta di anidride solforosa per proteggere adeguatamente il vino.
Se non s’intende curare il vino, oppure se non è più recuperabile, lo si invia alla distilleria, ma prima di compiere quest’operazione occorre immettervi 10 g/q di cloruro di litio come rivelatore (cioè per rivelare che la partita di vino in oggetto è destinata alla distilleria); se il vino è destinato alla produzione di acquavite non è necessaria l’aggiunta del rivelatore.

Quali malattie si possono sviluppare nel vino a contatto dell’aria?


Le malattie che si sviluppano a contatto dell’aria sono dette aerobe o aerobiche e sono: fioretta e spuntoacescenza.

La fioretta è una malattia causata da particolari lieviti (Hansenula, Pichia, ecc.) che si sviluppano rapidamente su vini deboli conservati in recipienti non ben colmi o non sufficientemente protetti dall’anidride solforosa. Questa malattia è facilmente riconoscibile poiché sul vino si forma una massa bianca, che pare un insieme di fiori, formata dal corpo (micelio) dei lieviti. Nei primi stadi la fioretta non è molto dannosa in quanto una parte di alcol è stata trasformata in acqua e anidride carbonica, senza formazione di composti maleodoranti, ma più avanti, procedendo questa trasformazione, il vino diventa disarmonico e piatto e si nota anche la demolizione di alcuni acidi. In fase avanzata il vino è recuperabile solo previa pastorizzazione, eventuale rifermentazione e poi protezione con anidride solforosa. Le pastiglie di isosolfocianato di allile (o essenza di senape) immesse a galleggiare sul vino in damigiana o botte costituiscono una barriera preventiva molto efficace per questa malattia, così come per la seguente.
Lo spunto è il primo stadio di una malattia causata da batteri (tipo Acetobacter) nel vino a contatto dell’aria. La malattia si presenta con un velo iridescente e viscido sulla superficie del vino, che all’olfatto risulta pungente. Infatti i batteri demoliscono l’alcol etilico formando acido acetico (il quale forma poi acetato d’etile). Quando la malattia è in una fase avanzata, cioè quando si è formato molto acido acetico (e acetato d’etile), è più adatto il termine acescenza, poiché si ha la netta impressione di essere in presenza di aceto.

Se la malattia è agli stadi iniziali, si può cercare di curarla facendo rifermentare il vino con un’aggiunta di mosto sano e di lieviti selezionati; queste operazioni devono essere però precedute da una pastorizzazione e sempre seguite da una consistente aggiunta di anidride solforosa. Se il vino è ormai acescente, la legge ne vieta la cura e pertanto si deve inviare alla distilleria o all’acetificazione in apposite aziende.


Quali malattie si possono sviluppare nel vino tenuto a riparo dall’aria?


Fuori dal contatto dell’aria si possono sviluppare le malattie dette anaerobe o anaerobiche: girato, filante, agrodolce, amaro.

Il girato (o subbollimento) si manifesta in genere d’estate, su vini poco acidi ove alcuni batteri (per esempio: Bacterium tartarophtorum) attaccano l’acido tartarico prima e gli altri acidi poi, oltre a vari composti non acidi, formando soprattutto acido acetico e acido lattico. La malattia si riconosce per lo scolorimento del vino rosso e per l’incupimento del vino bianco, come pure per lo sviluppo di bollicine gassose (specialmente in seguito a sbattimento del vino nel bicchiere). All’olfatto e al gusto si avverte una sensazione acetosa e putrefacente. Come prevenzione si consiglia di effettuare tempestivamente i travasi; come cura è necessario pastorizzare, rifermentare e solfitare.
Il filante (o grassume) si verifica soprattutto nei vini bianchi, contenenti ancora un certo residuo zuccherino, di cui si nutrono alcuni batteri (per esempio: Bacterium viscosus Vim) con formazione di sostanze mucillaginose. La malattia è riconoscibile nel versare il vino dal bicchiere, poiché si nota che il liquidofila come l’olio, essendo divenuto più viscoso e torbido; inoltre assume un retrogusto acre e rancido. Come prevenzione conviene esaurire gli zuccheri con una fermentazione completa. Per curare un tale vino occorre rompere la massa mucillaginosa con un energico sbattimento e poi chiarificare e filtrare; indi si pastorizza e si aggiunge anidride solforosa; eventualmente si può procedere alla rifermentazione.
L’agrodolce (o fermentazione mannitica o spunto lattico) è una malattia che si manifesta più frequentemente sul mosto o nel vino che contiene ancora dei residui zuccherini, quando la temperatura è superiore a 37° C. In questa condizione i lieviti restano inibiti, mentre i batteri (per esempio: Bacterium mannitopheum) si sviluppano a loro agio, demolendo gli zuccheri e formando vari composti, fra i quali prevale la mannite. Il vino affetto da questa malattia si presenta con riflessi sericei e ha un sapore agro (dato dagli acidi) e dolce (dato dalla mannite) che ricorda la frutta stramatura e vagamente acetosa. Come prevenzione è sufficiente contenere la temperatura, mentre la cura è possibile solo nei primissimi stadi mediante pastorizzazione, rifermentazione e solfitazione.
L’amaro (o amarore) è una malattia che si verifica sui vini rossi, vecchi, ove alcuni batteri (per esempio: Bacillus amaracrylicus) attaccano la glicerina, formando aldeide acrilica legandola ai polifenoli. Il vino si presenta torbido, decolorato, con un netto gusto amaro. Come prevenzione occorre effettuare tempestivamente i travasi. Come cura vale il solito procedimento: pastorizzazione, rifermentazione e solfitazione.


Che cosa succede durante l’invecchiamento del vino?


In enologia il termine invecchiamento è solitamente impiegato per significare che un vino è stato da uno a più anni in botte. Più correttamente bisognerebbe parlare prima di affinamento e poi di conservazione, nonché, al limite, di invecchiamento quando il vino è in bottiglia. Infatti il vino, appena svinato, migliora le proprie caratteristiche organolettiche riposando al buio e al fresco della cantina per un determinato periodo, che dipende dal vitigno e dall’annata. Per esempio il vitigno Nebbiolo è assai adatto a sopportare vari anni di permanenza in botte, anzi durante questo periodo si affina e migliora, mentre i vini bianchi (se si escludono i vini passiti e poche altre eccezioni) devono essere consumati entro l’anno o al massimo due anni, in modo che siano conservati la loro freschezza e il loro fruttato.

Nel 1972, per esempio, non venne prodotto il Barolo poiché l’andamento climatico fu tanto sfavorevole da non consentire una buona e completa maturazione dell’uva e perciò non fu possibile ottenere vino di qualità… furono gli stessi produttori a non richiedere che il loro vino fosse chiamato Barolo!

I vini per poter resistere all’invecchiamento e addirittura migliorare nel tempo devono possedere una buona struttura di base, cioè avere un buon livello di acidità (7-8%), una sufficiente gradazione alcolica (almeno 12°) e un’elevata quantità di estratto, cioè di corpo (specialmente per quanto riguarda il tannino). Il legno delle botti cede sostanze che migliorano l’odore e il sapore del vino, così come una certa permanenza in bottiglia favorisce la formazione di alcuni composti che possono originarsi solo nell’ambiente riducente (cioè privo o quasi d’aria) della bottiglia. Durante l’invecchiamento del vino si verificano cambiamenti a carico del colore (che assume toni più morbidi), della limpidezza (che aumenta progressivamente), del profumo (grazie alla formazione di esteri ed eteri) e del sapore (in virtù della diminuzione di acidità e della formazione di nuove sostanze).


Quali difetti si riscontrano più frequentemente nel vino?


I difetti del vino sono anomalie che riguardano le caratteristiche organolettiche, in particolare l’odore e il sapore. I più frequenti difetti sono:

— odore di uova marce, conferito dall’acido solfidrico che si forma nel mosto in fermentazione, a partire dall’anidride solforosa, a causa della mancanza di ossigeno (cioè dell’ambiente riducente). In genere con i primi travasi questo odore estraneo sparisce, ma se necessario si arieggia appositamente il vino;
— odore e sapore agliaceo, prodotto dall’acido solfidrico che ha reagito con l’alcol; questo difetto si riscontra quando non si è intervenuti in tempo per eliminare il difetto precedente. Non è curabile;
— odore di feccia, dovuto all’eccessiva permanenza del vino sui propri depositi fecciosi; come prevenzione occorre effettuare tempestivamente i travasi, mentre come cura si arieggia il vino ed eventualmente lo si tratta con carbone attivo;
— odore di tappo, che dipende dall’impiego di tappi provenienti da quercia giovane o da corteccia avariata, oppure dalla presenza di microrganismi che si sono sviluppati nel sughero in un qualsiasi momento della produzione del tappo;
— odore e sapore di carta, comunicato al vino dai cartoni filtranti di cellulosa; il difetto in questione è prevenuto filtrando un po’ d’acqua prima del vino; se come cura non è sufficiente un arieggiamento, occorre ricorrere al carbone attivo;
— sapore di rancido, dovuto all’incauto impiego di olio di oliva (non previsto dalla legge) quale impermeabilizzante per il tappo o per proteggere il vino dall’aria nella damigiana;
— sapore di lisciva, che dipende dal contatto del vino con recipienti di cemento oppure da trattamenti disacidificanti effettuati con carbonato di calcio; può essere curato addizionando al vino acido tartarico o acido citrico;
— sapore di topo, dovuto allo sviluppo di lieviti Brettanomyces, che formano l’acetamide;
— sapori metallici, che derivano dal contatto del vino con attrezzature metalliche o da residui di sostanze antiparassitarie; sono curabili con il carbone attivo.

La legge della CEE permette l’aggiunta al vino di solfato di rame (massimo 20 mg/l) per eliminare i difetti di odore e sapore, purché detto sale non sia già stato utilizzato per il trattamento delle viti.


Come s’imbottiglia il vino?


Bisogna prima di tutto precisare che l’imbottigliamento del vino è un sistema di conservazione dello stesso oltre che un mezzo di miglioramento organolettico. In sostanza lo scopo primo è quello di preservare il vino dai deleteri fenomeni ossidativi che lo invecchiano anzitempo o comunque precocemente. Quindi la prima regola da tenere presente quando si procede all’imbottigliamento è quella di limitare il contatto del vino con l’aria.

Oltre che allontanare il momento dell’invecchiamento, o meglio della decrepitezza, l’esclusione dell’aria consente la formazione di nuovi profumi e sapori e facilita la conservazione di altre pregiate caratteristiche. Per raggiungere questi scopi occorre far entrare poca aria nella bottiglia, il che è possibile operando una disaerazione della bottiglia prima dell’imbottigliamento ed eventualmente un’aggiunta di azoto (o di anidride carbonica per i vini frizzanti, o una miscela di questi due gas) che, essendo un gas inerte (cioè che non reagisce col vino), non comporta cambiamenti di odore e sapore, ma esclude la presenza dell’aria.
Un altro modo per imbottigliare a regola d’arte è quello di trattare le bottiglie con una soluzione di anidride solforosa, che elimina l’aria dalla bottiglia, dopo di che si fa sgocciolare la bottiglia e poi vi si immette il vino.

Trattandosi di vino di consumo corrente, si può procedere all’imbottigliamento a caldo, che consiste nel riscaldare il vino a 75-80 °C per 15 secondi e poi procedere all’imbottigliamento quando la temperatura è di circa 50-60 °C; in questo modo viene eliminata la camera d’aria tra pelo liquido e tappo.


Quando si imbottiglia?


Regola fondamentale è quella di non imbottigliare durante le giornate fredde e ventose; bisogna, a questo riguardo, tenere presente che l’aria si scioglie maggiormente nel vino proprio a bassa temperatura… e l’aria è il nemico numero uno del vino!

Se un vino è di pronta beva, cioè esprime il meglio di se stesso quando è giovane, occorre imbottigliarlo entro l’anno, vale a dire nella primavera o nell’autunno successivi alla vendemmia. È più adatta la primavera se si vuole ottenere un vino con una certa effervescenza; infatti un pur minimo residuo zuccherino ancora presente nel vino sarà fermentato dai lieviti in bottiglia, ma l’anidride carbonica che si sviluppa dal processo fermentativo rimarrà imprigionata nel vino, essendo la chiusura piuttosto ermetica.
Per quanto riguarda invece i vini che hanno già subìto due o più anni di conservazione (o invecchiamento, come si suol dire) non ha importanza il periodo dell’imbottigliamento, mentre sono sempre da evitare le giornate fredde, piovose, ventose.

Si preferisce imbottigliare in fase di luna calante (specialmente in coincidenza della luna nuova di primavera) poiché tale circostanza coincide con la ripresa dell’attività dei microrganismi nel vino; imbottigliando in questo periodo i lieviti e i batteri restano frenati dal fatto che in bottiglia c’è pochissima aria e dall’assenza del deposito feccioso, che costituisce un alimento per i microrganismi. Inoltre in concomitanza della luna nuova si nota che aumenta il livello del vino in damigiana, per poi ridiscendere durante la fase di luna calante. Quindi, se si imbottigliasse in fase di luna nuova, il livello del vino in bottiglia scenderebbe per esempio dai 3 ai 4 cm di distanza dal tappo, lasciando conseguentemente troppo spazio tra vino e tappo.


Perché non si deve imbottigliare il vino subito dopo il trasporto?


È a tutti noto che un vino proveniente da un trasporto all’assaggio risulta piatto, molle, senza nerbo. Il fatto è spiegabile con la fuoruscita di una parte del gas anidride carbonica (si tenga presente che anche il vino non effervescente contiene sempre una certa dose di questo gas). Il gas esce a causa dello sbattimento cui è soggetto il vino durante il trasporto.

Peraltro il difetto che si constata è provvisorio, in quanto se il vino è lasciato a sé, nel volgere di pochi giorni riprende l’anidride carbonica dall’atmosfera fino a ripristinarne la quantità originaria, che gli conferisce la freschezza e la vivacità di partenza.


E’ importante il tappo per la conservazione del vino?


Diciamo che il tappo è fondamentale per la corretta conservazione del vino. Lo scopo primo del tappo è quello di assicurare una chiusura pressoché ermetica della bottiglia, in modo da isolare il vino dall’aria.

Il tappo deve essere inerte, cioè non deve interagire con il vino, pena la formazione di composti dall’odore e dal sapore estranei. Il materiale più adatto per soddisfare le esigenze predette è senza dubbio il sughero, il cui uso come chiusura delle bottiglie di vino si fa risalire al monaco francese Dom Perignon (cui viene pure attribuita, generalmente, l’invenzione dello Champagne). Il sughero è ricavato dalla corteccia di una quercia (Quercus suber) dell’età di almento 8 anni. Se la quercia è più giovane fornisce tappi non sufficientemente elastici, con venature grosse e profonde, e con una costituzione chimica che conferirà odori e sapori estranei al vino.
Un buon tappo deve avere un diametro di 0,25 cm almeno, deve avere una lunghezza non inferiore a 4 cm e pesare più di 4 g. Prima dell’uso il tappo deve essere immesso in una soluzione di anidride solforosa per garantirne la sanità. Alla tappatura del vino spumante si prestano particolarmente i tappi costituiti da più pezzi, i quali si dimostrano più resistenti alla pressione esercitata dall’anidride carbonica.

Come vanno disposte le bottiglie in cantina?


Appena il vino è imbottigliato, le bottiglie devono essere tenute in posizione verticale per permettere al tappo di sughero di espandersi tanto quanto gli consente la sua elasticità, Maggiore è l’espansione e nore è lo spazio fra tappo e vetro (collo della bottis glia), fino ad assicurare una chiusura praticamente metica. Se c’è un minimo spazio fra tappo e vetro il vino sarà soggetto alle ossidazioni e a un precoce in. vecchiamento a causa dell’entrata di aria e di microrganismi.

Dopo due settimane le bottiglie vanno disposte in posizione orizzontale, in modo che il vino tenga il tappo costantemente umido e quindi dilatato; altrimenti nel giro di poco tempo il tappo si disseccherebbe (tanto più rapidamente quanto più asciutta e calda è la cantina). Il tappo sano non comunica odore e sapore al vino, mentre se non è sano trasmette al contenuto il proprio odore (o odore di muffa) anche se la bottiglia è in posizione verticale e il sughero non è bagnato dal vino.

Succede a volte che il vino defluisca dalle bottiglie coricate (è la cosiddetta colosità) a causa di anomale composizioni del tappo; si tratta comunque di tappo difettoso.


Come sono classificati i vini secondo la legge?


I vini, secondo la legislazione nazionale e comunitaria, sono suddivisi in quattro categorie:

– vino da tavola (fino a qualche anno fa la dicitura era vino da pasto);
– vino da tavola con indicazione geografica o di vitigno;
– vino di qualità: a denominazione di origine controllata e a denominazione di origine controllata e garantita;
– vini speciali: mistelle, vini liquorosi, vini aromatizzati, vini spumanti,

I vini tipici sono, verosimilmente, di prossima adozione e saranno, con ogni probabilità, classificati come vini da tavola aventi un’indicazione geografica o un nome di uno o due vitigni.


Che cosa vuol dire vino da tavola?


Il vino da tavola è, fra quelli prodotti, il meno pregiato, pur potendo avere elevate caratteristiche qualitative; circa il 90% del vino italiano appartiene a questa categoria.

Questo tipo di vino deve essere prodotto solo con varietà di uve previste dalla CEE e prescritte dall’Albo provinciale; per ogni provincia esiste infatti un elenco di vitigni considerati particolarmente adatti per quel determinato ambiente (vitigni raccomandati) e un elenco di vitigni ritenuti adatti (vitigni autorizzati).

Inoltre il vino da tavola deve essere prodotto nel territorio della CEE, avere almeno 9 gradi alcolici effettivi e non più di 15 complessivi (fino a 17 gradi se contiene almeno 5 g/I di zucchero), e un’acidità totale non inferiore a 4,5 g/l.


Che cosa significano le sigle v.q.p.r.d. e D.O.C.?


La sigla v.q.p.r.d., adottata in tutta la CEE, significa vino di qualità prodotto in regione determinata e comprende i vini D.O.C. e D.O.C.G.

La sigla D. O. C. (o d.o.c.) significa denominazione di origine controllata; v.s.q.p.r.d. significa vino spumante di qualità prodotto in regione determinata.
Questi vini di qualità sono stati istituiti con la Legge 12/7/1963 n° 930, secondo cui “per denominazione di origine dei vini s’intendono i nomi geografici e le qualificazioni geografiche delle corrispondenti zone di produzione, accompagnati o non con i nomi di vitigni o altre indicazioni usate per designare i vitigni che ne sono originari e le cui caratteristiche dipendono essenzialmente dai vitigni e dalle condizioni naturali di ambiente”.
Per ogni vino di qualità vi è un disciplinare di produzione che contiene notizie generali e il decreto di riconoscimento della denominazione di origine; questo in particolare definisce:
— la delimitazione della zona di produzione;
— la varietà (o le varietà) di uva dalla quale si ottiene il vino;
— le pratiche colturali che si devono e quelle che si possono attuare;
— il metodo di vinificazione;
— il grado alcolico naturale minimo dell’uva;
— il rendimento per ettaro;
— colore, odore e sapore del vino;
— acidità totale minima;
— grado alcolico complessivo minimo.

In Italia le D.O.C. sono più di 200 e riguardano 01tre 500 vini; si tenga infatti presente che con una stessa denominazione ci possono essere più vini (per esempio: con la denominazione Franciacorta vi sono il vino rosso e il Pinot; con la denominazione Parrina vi sono un vino rosso e un vino bianco; con la denominazione Trentino vi sono 11 vini, ecc.). Almeno una volta ogni 3 anni i vini D.O.C. devono essere controllati da una Commissione di degustazione.


Che cosa significa la sigla D.O.C.G.?


La sigla D. O. C. G. (o d.o.c.g.) significa denominazione di origine controllata garantita. È questa la massima qualificazione che può ottenere un vino italiano ed è attribuibile solo ai vini che già si fregiano della D.O.C., che possiedono elevate caratteristiche qualitative e hanno acquisito particolare fama. I primi vini che hanno ottenuto questo ambìto riconoscimento (nel 1980) sono: Vino Nobile di Montepulciano, Brunello di Montalcino, Barolo, Barbaresco; a questi si è aggiunto il Chianti (nel 1984) e l’Amarone (nel 2010).

La data d’inizio della vendemmia per produrre i suddetti vini è fissata dai competenti organi regionali in accordo con le organizzazioni professionali, gli enti e gli istituti interessati. Prima dell’ammissione al consumo questi vini devono essere sottoposti alla prova di degustazione, effettuata da apposita Commissione di Assaggio presso la Camera di Commercio.

I contenitori per i vini D.O.C.G. devono avere la capacità massima di 5 1.


Che cos’è il Vermouth?


Il Vermouth, o Vermut, è un vino speciale aromatizzato e liquoroso, prodotto per la prima volta dalla ditta Carpano di Torino.

Per la preparazione di questo vino da aperitivo si utilizza un vino bianco di gusto neutro, al quale vengono aggiunti zucchero, alcol, erbe e droghe varie. Il Vermouth secco contiene il 70% di vino base, mentre l’altro tipo ne contiene il 75%; lo zucchero è contenuto in quantità del 4% e 14% rispettivamente per i due tipi e l’alcol dal 18 al 21 % nel tipo secco e almeno nella misura del 15% nell’altro tipo.
L’aromatizzazione avviene per aggiunta di un’infusione o di un estratto di:
— erbe amare: centaurea, cardo santo, ecc.;
— erbe aromatiche: maggiorana, timo, ecc.;
— erbe amaro-aromatiche: assenzio (in tedesco Wermut), achillea, ecc.;
— droghe amare: china, rabarbaro, ecc.;
— droghe aromatiche: cannella, coriandolo, ecc.; — droghe amaro-aromatiche: arancio amaro, calamo aromatico, ecc.

La colorazione scura del Vermouth rosso è ottenuta per aggiunta di caramello.La produzione del Vermouth è regolata dal D.L. 11/1/1956 n° 3 e avviene sotto il controllo della Guardia di Finanza.


Che cosa vuol dire metodo Champenois o metodo classico?


Si tratta di un sistema di spumantizzazione con il quale si ottengono lo Champagne e quelli che sono con_ siderati i migliori spumanti secchi italiani.

In sostanza si tratta di una rifermentazione in bottiglia. Prima di tutto occorre produrre un vino bianco detto vino di base, per il cui ottenimento si ammosta l’uva mediante una pressatura particolarmente soffice in modo da far fuoruscire pochi polifenoli dalle bucce; la resa in mosto è del 50% (contro il 70% circa della generalità dei vini). Il mosto è subito sfecciato e solfitato, poi viene avviato alla fermentazione alcolica alla temperatura di 20 °C circa per 3 settimane.
In primavera il vino è filtrato, addizionato di sciroppo zuccherino (liqueur de tirage), lieviti, sali di azoto (alimento per i lieviti), un collante e poi imbottigliato con un tappo provvisorio e le bottiglie sono disposte orizzontalmente in cataste, in una cantina in cui la temperatura è di 10-12 °C ove il vino inizia la rifermentazione, che si protrae per 2-6 mesi e anche più. Questa rifermentazione in bottiglia è anche detta presa di spuma.
A fine fermentazione le cataste vengono sfatte e rifatte per rimettere in sospensione le fecce, dopo di che inizia la maturazione del vino, ormai spumante, sulle proprie fecce. Durante questo periodo, che dura da alcuni mesi ad alcuni anni, si vengono a formare nuovi composti che caratterizzano questo tipo di vino. La legge della CEE prevede un minimo di 9 mesi d’invecchiamento (dalla presa di spuma alla maturazione sulle fecce compresa), per lo Champagne 12 mesi, mentre l’Istituto dello Spumante italiano metodo classico prevede un invecchiamento minimo di 24 mesi (di cui almeno 18 sulle fecce) e, nel caso di dichiarazione dell’annata in etichetta, 36 mesi (di cui almeno 24 sulle fecce).
A questo punto occorre procedere all’eliminazione del deposito della bottiglia, che si ottiene con un lungo lavoro (1 +2 mesi), detto rémuage, col quale a poco a poco il deposito è inviato sulla punta della bottiglia, oppure mediante un’apparecchiatura appositamente congegnata. Poi il deposito viene espulso dalla bottiglia o tramite una rapida stappatura o facendo congelare il deposito a mezzo di una salamoia (a —20 °C). La parte di spumante che si perde facendo fuoruscire il deposito viene rimpiazzata; a questo punto si può aggiungere anche il liqueur d’expédition per dare una caratteristica particolare al prodotto (questo sciroppo di dosaggio è costituito da mosto o vino ed eventualmente distillato di vino).

Le uve ritenute più adatte alla produzione di spumante di questo tipo sono: Pinot nero, Pinot bianco, Pinot grigio, Pinot meunier, Chardonnay.


Che cosa significa metodo Charmat o Martinotti?


E’ un sistema di spumantizzazione ideato da Federico Martinotti (1860-1924) e poi sfruttato industrialmente dal francese Charmat.

La differenza sostanziale rispetto al metodo precedente è data dal fatto che la rifermentazione del vino di base avviene in un’autoclave di grandi dimensioni. Una seconda autoclave (collegata alla prima) riceve il vino rifermentato (quindi vino nel quale è avvenuta la presa di spuma) al fine di eliminarne la feccia mediante una filtrazione o centrifugazione. Il vino spumante 67 passa poi a una terza autoclave che consente l’imbottigliamento.
Nel giro di 2+3 settimane è compiuto il ciclo dalla presa di spuma all’imbottigliamento. È stato anche ideato, piuttosto recentemente, un sistema detto Charmat lungo, che prevede una maggiore permanenza del vino spumante sulle proprie fecce.

Questo metodo di spumantizzazione è più adatto per le uve aromatiche, tipo Moscato e Malvasia.


Che tipo di vino è l’Asti?


È un vino spumante, detto anche Asti spumante o Moscato d’Asti spumante, prodotto con uva Moscato bianca nelle province di Asti, Cuneo e Alessandria.

Oggi questo vino è prodotto con il sistema Charmat, mentre anni addietro era anche prodotto secondo il metodo Champenois o con il metodo Mensio, che consisteva nell’interrompere la fermentazione alcolica mediante ripetute filtrazioni a bassa temperatura.
Attualmente si procede all’ammostamento mediante pigiatura e sgrondatura oppure tramite una pressatura. Il mosto è poi stabilizzato mediante centrifugazione e conservato alla temperatura di —5 °C fino al momento della fermentazione. Questa viene attuata secondo le necessità di mercato in determinati periodi dell’anno (per esempio in prossimità delle feste natalizie e pasquali). La fermentazione avviene in autoclavi (della capacità di 1000-2000 hl) ed è interrotta quando si è formato il 6-8% di alcol; il vino è poi filtrato nella
seconda autoclave per la presa di spuma. Ne risulta un vino spumante con 7,5-9 gradi alcolici e un 8% circa di residuo zuccherino. A questo punto la fermentazione è definitivamente interrotta e il vino passa alla terza autoclave per l’imbottigliamento. Prima di essere POsto in vendita l’Asti subisce una sosta di 2-3 mesi.

Questo vino spumante, vanto italiano, dovrebbe essere consumato entro 6-8 mesi (al massimo) per POterne assaporare tutta la fragranza olfattiva, aromatica, gustativa.


Quali diciture devono comparire sull’etichetta?


La regolamentazione comunitaria prevede che sull’etichetta o su un’etichetta secondaria o direttamente sulla bottiglia (la legge più recente, del 1984, parla infatti non più di etichetta, ma di campo visivo) debbano comparire le seguenti menzioni obbligatorie:

— vino da tavola, oppure, per il vino di qualità, il nome della regione determinata da cui proviene il vino, con scritto sotto denominazione di origine controllata o v.q.p.r.d. o vino di qualità prodotto in regione determinata;
— nome o ragione sociale dell’imbottigliatore;
— comune o frazione sede dell’imbottigliatore; — numero di codice dell’imbottigliatore: n… R.I. (Registro Imbottigliatore) o R.I. V. (Registro Imbottigliatore Viticoltore), cui segue la sigla della provincia; — volume nominale del vino;
— limitatamente ai vini di qualità e ai vini novelli è obbligatoria anche la dichiarazione dell’annata della vendemmia;
— in sede nazionale è anche obbligatoria la dichiarazione della gradazione alcolometrica effettiva e totale.

Se si tratta di vino da tavola con indicazione geografica, occorre specificare anche il nome dell’unità geografica (che non deve dar adito a confusione con un nome già in uso per un v.q.p.r.d. e che deve essere più piccola dello Stato).


Quali diciture possono essere facoltativamente apposte sull’etichetta?


Numerose sono le menzioni che si possono apporre sull’etichetta principale o secondaria o direttamente sulla bottiglia. Le più importanti per il vino da tavola sono le seguenti:

— precisazione del colore del vino (rosso, rosato o bianco);
— marchio, che può anche consistere in un nome di fantasia;
— viticoltore, fattoria, azienda agricola, vigneti, ecc. riferiti all’imbottigliatore;
— nome o ragione sociale, comune o frazione delle varie persone fisiche che hanno partecipato al circuito commerciale;
— distinzione attribuita da un organismo ufficiale; — nome dello Stato in cui l’uva è stata raccolta e vinificata;
— raccomandazione rivolta al consumatore circa i piatti da abbinare al vino, il modo di servirlo, il modo di conservarlo, l’ammissione per fini religiosi;
— precisazione riguardante eventuali colori particolari (per esempio: ambrato) e tipi di vino particolare (per esempio: abboccato, dolce, ecc.).
Per il vino da tavola con indicazione geografica so- no ammesse anche altre menzioni: — una o due varietà di vite;
— annata della vendemmia;
— nome o ragione sociale e comune dell’azienda ove l’uva è raccolta e vinificata;
— informazioni relative alla storia del vino;
car
car
— indicazione relativa a un uso dietetico.
Per quanto riguarda il vino di qualità sono ammesse anche altre indicazioni:
— menzioni tradizionali complementari (per esempio: riserva, superiore, classico, ecc.);
— nome di un’unità geografica più piccola della regione determinata;
— numero di controllo di qualità attribuito al vino da un organismo ufficiale;
— numero del recipiente o della partita;
— precisazione circa l’elaborazione del vino;

— imbottigliamento nella zona di produzione, ecc.


Che cos’è il contrassegno I. V. A. o tappo fiscale?


E’ uno speciale contrassegno da apporre su tutti i recipienti di capacità non superiore a 60 L, all’atto del riempimento. Detto contrassegno va impresso sul tappo (o altra chiusura) oppure è rappresentato da una fascetta di carta incollata sul tappo (o altra chiusura).

Sul contrassegno impresso sul tappo vanno indicati:
la dizione I. V.A o contro I. V.A.; categoria del prodotto: A (se < 21° alcol), B (se > 21° alcol), C (spumante metodo Champenois); — denominazione o marchio della ditta che ha fabbricato gli oggetti di chiusura;
— denominazione e sede o numero di codice della ditta imbottigliatrice.
Sul contrassegno (o sulla fascetta) occorre indicare: la dizione contrassegno I.V.A.;
— il numero progressivo, con eventuale prefisso alfabetico;
— classe di contrassegno: 1 fino a 0,5 1; 2 da 0,51 1 a 1 1; 3 da 1,001 1 a 2 1, ecc.; fino a 6, per i contenitori tra 20 e 60 1;
— elementi identificativi della tipografia autorizzata, completi degli estremi della relativa autorizzazione ministeriale;

— il riferimento al D.M. 4/5/1981 e successive modifiche.


Quali sono le caratteristiche che deve avere il vino genuino?


Frequentemente si equivoca su questo termine, precisiamo quindi che genuino è il vino che proviene sicuramente e solo dall’uva senza aggiunta di sostanze estranee (mele, fichi, ecc.). Quindi il termine in oggetto non è legato alla qualità del vino, ragion per cui un vino genuino può essere torbido, poco profumato o addirittura con difetti di odore e sapore, mentre un vino artefatto può risultare più gradevole alla vista, all’olfatto al gusto.

Secondo l’Istituto Superiore di Sanità i componenti del vino ritenuti più significativi al fine della valutazione della genuinità sono:
— prolina: minimo 100 mg/l;
— fenoli totali: minimo 200 mg/l;
— potassio: minimo 300 mg/l;
— magnesio: minimo 80 mg/l; — azoto totale: minimo 100 mg/l; — nitrati: massimo 5 mg/l.
La legge prevede inoltre altri limiti che devono essere rispettati:
— zinco: massimo 5 mg/l;
— rame: massimo 1 mg/l;
— piombo: massimo 0,3 mg/l;
— bromo inorganico: massimo 1 mg/l;
— H3B03.• massimo 60 mg/l;
— sorbite: massimo 70 mg/l;
— estratto secco: non meno di 14 g/I per i vini bianchi (con qualche eccezione); non meno di 15 g/I per i rosati; non meno di 18 g/I per i vini rossi;

— ceneri: non meno di 1 g/I per i vini bianchi; non meno di 1,2 g/I per i rosati; non meno di 1,4 g/I per i rossi.


Quanto vino si può bere al giorno?


Affinché il vino eserciti un’azione benefica sull’organismo umano deve essere assunto in dosi moderate. Non c’è unanimità di vedute circa la quantità di vino che si può ingerire giornalmente, tuttavia la maggior parte degli studiosi ritiene valida la dose di 1 g di alcol per kg di peso corporeo; ciò significa quasi un litro al giorno se il vino ha 10° alcolici o 3/4 di litro se si tratta di vino con 13° alcolici, per un uomo del peso di 70 kg. Alcuni autori sono più prudenti e consigliano il 70% delle dosi qui citate; specialmente per donne, anziani e ragazzi.

Si tratta in ogni caso di dati medi, poiché c’è differenza da individuo a individuo per vari motivi: — predisposizione genetica, perché alcune persone producono maggiori quantità di enzimi preposti alla distruzione dell’alcol; per esempio, gli italiani, i russi e gli israeliani sono ritenuti maggiormente predisposti a tollerare l’alcol rispetto agli indiani, agli statunitensi e agli svedesi;
— l’individuo più allenato a bere risulta più resistente all’alcol;
— bevendo lentamente, l’alcol è meglio tollerato; — bevendo a stomaco pieno, l’organismo umano sopporta meglio gli effetti dell’alcol;

— l’organismo sano tollera maggiormente l’alcol.


Cambiare tipo di vino durante il pasto provoca disturbi?


A volte questo viene asserito e qualche bevitore lo testimonia. Tuttavia il fatto di bere due o più tipi di vino differenti durante un pasto non è di per sé dannoso, purché non si superi la dose tollerabile dal singolo individuo.

Come si spiegano allora le constatazioni? Può succedere che, cambiando tipo di vino, s’incappi in un vino contenente elevate dosi di anidride solforosa: questo gas in quantità elevate procura mal di testa (la sensazione di avere un cerchio alla testa) e di stomaco.


E’ vero che il vino facilita la digestione?


Senza dubbio il vino facilita la digestione, sia per la presenza dell’alcol sia per gli acidi che contiene.

L’alcol aumenta la secrezione salivare di ptialina, che prepara il cibo all’attacco dei succhi gastrici; inoltre l’alcol aumenta la secrezione dei succhi gastrici (tanto di acido cloridrico quanto di gastrina e pepsina).

Gli acidi aumentano l’acidità del bolo alimentare di modo che gli enzimi si trovano nelle condizioni ideali per demolire il cibo; inoltre l’acidità stimola le contrazioni dell’apparato digerente e sollecita l’apertura del piloro; si nota anche un aumento della secrezione di bile (per cui viene facilitata la digestione dei grassi) e della secrezione pancreatica (che facilita la digestione degli zuccheri).


Il vino è dannoso alle arterie?


Ben lungi dal danneggiarle, il vino le tiene in perfetta forma… a meno che non si esageri! Infatti i polifenoli stabilizzano il collagene (che è un elemento del tessuto connettivo, principale costituente delle arterie), il che consente di migliorare il tono e l’elasticità delle arterie. I polifenoli facilitano pure l’azione della vitamina C, la quale svolge anche l’opera di allontanare il colesterolo dai vasi sanguigni; bloccano un enzima che produrrebbe troppa istamina, che permeabilizza eccessivamente le arterie consentendovi il deposito di colesterolo; infine rallentano direttamente la formazione di colesterolo.

Anche l’alcol concorre a mantenere pulite le arterie, tanto che in America è stato definito “spazzino delle arterie”; infatti l’alcol facilita la formazione di sostanze (HDL lipoproteine) che effettuano il trasporto del colesterolo dalle arterie al fegato (ove il colesterolo è reso innocuo).


Il vino brulè ha efficacia terapeutica?


Da qualche anno il vino addizionato di cannella chiodi di garofano, coriandolo, pepe, zucchero, e poi riscaldato fino a ebollizione, ha trovato nuovi proseliti proprio nella classe medica.

In effetti il vino brulé è indicato in casi di raffreddore e di virosi respiratorie. L’azione antivirale è dovuta ai tannini che bloccano le proteine del virus. D’altra parte è nota l’azione antibatterica e antivirale, come è stato ampiamente dimostrato a danno del vibrione del colera e sui germi del tifo, della dissenteria, ecc. Vale la pena di ricordare che uno dei più illustri studiosi odierni del vino in relazione alla salute umana, J. Masquelier, asserisce che, grazie ai polifenoli, il vino deve essere considerato come “un agente profilattico eccezionale nel campo dell’igiene alimentare”.

Tornando al vino brulé, l’azione benefica che esso fornisce è anche da collegare alla vasodilatazione provocata sia dai polifenoli sia dall’alcol.


Il vino è tollerato dai diabetici?


Il vino secco, cioè privo di zucchero, è perfettamente tollerato dai diabetici. Anzi in questi individui l’alcol del vino è assai utile, sia come fornitore di calorie (che il diabetico non riesce a ricavare dallo zucchero) sia perché il fabbisogno calorico viene soddisfatto senza bisogno di ricorrere all’insulina. Si può aggiungere che il vino (grazie all’alcol che contiene) esplica un’azione ipoglicemizzante (cioè abbassa il contenuto di zucchero nel sangue).

In Germania è posto in vendita nelle farmacie “vino per diabetici”… si tratta di Barbera d’Asti e Cortese di Gavi; almeno questi sono i vini acquistati dalla casa di distribuzione di farmaceutici che ha lanciato l’ottima idea.


Che cosa sono i vini di regime?


“Sono quei vini che, per la loro costituzione fisicochimica e le loro caratteristiche, servono a integrare le diete, adattate alle varie condizioni patologiche e fisiologiche”. Così si sono espressi due eminenti studiosi, C. Garino-Canina e L. De Benedetti, rispettivamente agronomo e medico. Mentre l’illustre P. G. Garoglio si esprime nei seguenti termini: “Il vino di regime è un vino destinato per i suoi caratteri energetici o eccitanti a integrare gli elementi biochimicamente attivi”. I vini di regime vengono suddivisi in 7 gruppi a seconda delle loro caratteristiche:

tipo A: bianco secco
”      B: rosato e chiaretto
”      C: rosso comune da pasto (da tavola)
”      D: rosso superiore invecchiato, da arrosto
”      E: frizzante e semifermentato
”      F: spumante
”      G: vino generoso, cioè ricco di alcol.
Per esempio, il vino tipo:
A è indicato per le malattie del ricambio
B ”      ”    le coliti con stitichezza
C ”      ”    le coliti con diarrea
D ”      ”    le gastriti con ipocloridria
E  ”     ”    le nevrosi depressive
F  ”     ”    le malattie febbrili acute
G ”     ”     la convalescenza.

Quando conviene iniziare e bere il vino?


È consigliabile accostarsi al consumo del vino a poco a poco fin dall’infanzia. Gli studiosi sostengono in genere che si possa iniziare ad aggiungere all’acqua una minima parte di vino a partire dall’età di 7-8 anni, con lo scopo di preparare psicologicamente il bambino. Ci sembra un’ottima soluzione, tanto più che così facendo l’organismo si abitua, cioè si allena gradualmente alla digestione della nuova bevanda.

All’età di 12-16 anni si può aumentare la dose di vino fino a due dita per bicchiere d’acqua; poi fino ai 18 anni si può arrivare alla miscela di acqua e vino al 50%; dopo i 18 anni è consentito un bicchiere o un bicchiere e mezzo al pasto.

Dai 20-21 anni in avanti vale la dose giornaliera di 1g di alcol per kg di peso corporeo.


Che cos’è l’analisi organolettica del vino?


È un’analisi effettuata mediante gli organi di senso, volta a valutare fondamentalmente il colore, l’odore, il sapore, la tipicità, la limpidezza, l’effervescenza e lo stato di conservazione del vino.

Quest’analisi (oltre a quella di laboratorio) è prevista dalla legge per tutti i vini di qualità, controllati da un’apposita Commissione di Assaggio che funziona presso ogni singola Camera di Commercio. I vini D.O.C. devono essere controllati almeno una volta ogni 3 anni, mentre i vini D.O.C.G. tutti gli anni, prima dell’immissione al consumo. Tuttavia si ricorre all’analisi organolettica ogniqualvolta s’intenda fare una graduatoria fra i vini, per classificarli secondo i loro meriti oppure quando si vuole stabilire a quale categoria appartenga un dato vino.


Quali sono i fattori che determinano i caratteri organolettici del vino?


Ogni vitigno produce un’uva con proprie caratteristiche. Vi sono uve aromatiche come il Moscato, altre dette a sapore neutro o semplice come l’Erbaluce e, conseguentemente, si otterranno rispettivamente un vino aromatico e un vino a gusto neutro. Il vitigno Barbera produce uve (e vino) più acide, mentre il Dolcetto produce uva (e vino) meno acida. Altri esempi possono essere fatti per la quantità di zucchero, di sostanze coloranti, ecc.

Il terreno è un altro fattore essenziale per determinare le caratteristiche di un vino; per esempio, con lo stesso vitigno Nebbiolo si ottengono vini con certe differenze in terreni diversi: Barolo, Gattinara, Sizzano, Valtellina, ecc. I terreni sabbiosi danno vini più fini, quelli argillosi più colorati, i terreni calcarei fanno sì che si ottengano vini poco acidi, mentre quelli acidi originano vini delicati.
Il clima esercita una notevole influenza sulla Com_ posizione dell’uva e specialmente su determinati cornposti; se il decorso climatico è stato caldo e asciutto l’uva sarà molto zuccherina, mentre sarà assai acida se vi sono state molte piogge.
La tecnica di vinificazione è essenziale per ottenere vini differenti, pur partendo da una stessa uva proveniente da una sola zona. Per esempio, con breve ma. cerazione si ottengono vini più aromatici e meno corposi. Facendo avvenire la fermentazione a bassa temperatura (10+ 12 0C) si ottengono vini con profumi più leggeri e delicati.
I lieviti apportano un notevole contributo organolettico, in quanto i vari generi e le diverse specie producono in particolare determinati composti: per esempio il Saccharomyces cerevisiae produce molti esteri dall’odore piacevole, mentre lo Schyzo saccharomyces produce molte sostanze che conferiscono al vino un odore sgradevole.
Il sistema di conservazione incide in modo netto sul tipo di vino che si vuole ottenere; trattandosi di un vino tipo Barolo, occorre una protratta conservazione in botte per consentire la formazione del tipico bouquet, mentre un vino bianco in genere deve essere immesso al consumo entro breve tempo e conservato nel frattempo in contenitori che escludano la presenza di aria.


Come agisce il sistema nervoso nella degustazione?


Ogni segnale proveniente dall’esterno viene recepito dall’uomo mediante gli organi di senso, che hanno appunto lo scopo di far pervenire al cervello i segnali (stimoli) esterni.

I segnali (per esempio: colore, odore, sapore) sono recepiti tramite cellule nervose particolari, dette recettori, che percepiscono lo stimolo e lo inviano al cervello. Qui avviene la traduzione del segnale in una sensazione comprensibile da parte dell’organo che aveva recepito il segnale.
Il trasporto del segnale dall’organo di senso (occhio, naso, bocca) al cervello e viceversa avviene tramite fibre nervose.
L’organo recettore per la vista è l’occhio tramite la retina.
L’organo recettore per l’olfatto è il naso tramite la mucosa olfattiva.

L’organo recettore per il sapore è l’apparato boccale tramite le papille gustative.


Che cosa vuol dire valore-soglia?


Il valore-soglia (o liminare) è la quantità di un certo colore, di un certo odore o di un certo sapore, che risulta percepibile dal nostro organismo, vale a dire che ogni segnale è recepito solo se colpisce i recettori dell’organo di senso con una certa intensità.

Più esattamente la soglia di sensazione è quella sufficiente per poter avvertire un certo segnale (per esempio: un odore), mentre la soglia di percezione consente di distinguere un ben determinato segnale (per esempio: odore di rosa).

Ogni individuo ha propri valori-soglia per i più svariati segnali che gli giungono dall’esterno, ma questi valori sono abbassabili con l’allenamento, cioè l’abitudine d sentire un certo odore lo fa riconoscere più rapidamente e anche a dosi più basse di quelle necessarie alle persone prive di allenamento.


Perché le fonti artificiale di luce non sono tutte adatte alla degustazione?


Un raggio di luce solare è costituito da 7 colori (i 7 colori dell’iride), come si può constatare osservando l’arcobaleno o tramite un prisma di vetro. Il colore rosso (o giallo) del vino è dato dal fatto che le sostanze coloranti in esso presenti riflettono fino ai nostri occhi quella parte della luce che conferisce il colore rosso (o giallo).

Alcune fonti luminose (per esempio la luce al neon) emettono raggi non uguali a quelli solari, in quanto non sono costituiti da tutti e 7 i colori dell’iride; perciò queste fonti di luce, e in particolare quella al neon, falsano i colori.


Come si effettua l’esame visivo del vino?


Innanzi tutto occorre valutare la tonalità e l’intensità colorante, poi la limpidezza, quindi l’eventuale effervescenza. A questo scopo il bicchiere va tenuto per il gambo con indice e pollice (o indice, medio e pollice se il gambo è molto lungo) oppure si regge tenendo il piede con il pollice superiormente. Il colore è meglio valutato inclinando il bicchiere in modo da osservare uno strato sottile di vino, oppure si versano nel bicchiere solo poche gocce! La limpidezza va osservata in controluce, abbassando il bicchiere e rialzandolo fino all’altezza degli occhi, per valutare il vino sotto tutte le incidenze luminose.

Agitando il bicchiere, il vino determina sul vetro la formazione di archetti più o meno stretti o ampi, che scendono lentamente. Quando gli archetti sono stretti si può presumere, in linea di massima, che il vino presenti un elevato grado alcolico.

Si valuta anche la fluidità del vino, la quale può essere disturbata, nel senso che risulta meno scorrevole in seguito a un attacco batterico, il quale rende il vino filante (come l’olio, per fare un esempio) quando viene versato.


Quali colori si ritrovano nel vino?


I colori che si possono riscontrare nel vino bianco sono: bianco carta o platino, bianco con riflessi verdognoli o giallognoli, giallo con riflessi verdognoli, giallo paglierino, giallo dorato, giallo ambra, ambratobruno.

Questi colori possono essere tipici di un certo vino, ma nell’ambito di ogni vino si ha il passaggio da una tonalità a quella successiva in seguito all’invecchiamento del vino. Più chiara è la tonalità del colore più leggeri sono i profumi emanati dal vino; alla tonalità tenue corrisponde anche minor corpo, viceversa a maggior intensità di colore corrisponde un’emanazione di profumi più pesanti e una maggiore struttura, anche per quanto riguarda il corpo.
Nel vino rosato si ritrovano le seguenti tonalità di colore: rosa pallido, rosa o rosato, rosa antico, cerasuolo, chiaretto; detti colori sono in progressione, nel senso che il rosa pallido è il più tenue, mentre il chiaretto è il più carico di colore e tende ad avvicinarsi maggiormente al vino rosso.

Nel vino rosso si ritrovano le seguenti tonalità di colore: rosso-violetto o rosso porpora, rosso rubino con riflessi violacei, rosso rubino, rosso granato, rosso granato con riflessi aranciati, ambrato. Ogni vino ha una sua tipicità di colore, ma nell’ambito di ognuno si nota il passaggio da una tonalità alla successiva con l’invecchiamento; quindi i vini rosso-violacei sono quelli giovani, che a poco a poco cambiano colore assumendo toni verso il granato e l’ambrato.


Come viene valutata l’effervescenza?


L’effervescenza è data dal gas anidride carbonica che si forma durante la fermentazione dello zucchero in alcol. Mentre nei vini tranquilli non c’è sviluppo di gas, nei vini frizzanti e ancor più in quelli spumanti lo sviluppo delle bollicine gassose è la caratteristica più evidente.

Interessante è la valutazione della dimensione (o grana) delle bollicine che possono essere: molto fini, fini, medie, abbastanza grosse, grosse; più elevata è la qualità dello spumante più fini sono le bollicine.
Anche il numero delle bollicine viene osservato ai fini della valutazione qualitativa; sotto questo punto di vista possono essere: molto numerose, numerose, abbastanza numerose, scarse, molto scarse.

Infine la persistenza della corona (o perlage) di bollicine è pure un fattore nobilitante lo spumante; essa viene catalogata secondo le seguenti definizioni: molto persistente, persistente, abbastanza persistente, poco persistente, evanescente. Il fuoruscire delle bollicine dal bicchiere comporta il trascinamento di profumi, per cui più persistente è il perlage più lunga e intensa sarà la sensazione olfattiva.


Come viene valutato l’aspetto del vino?


Dell’odore del vino interessano innanzi tutto l’aspetto qualitativo, l’intensità e la persistenza.

Per quanto concerne la qualità, essa può essere vaIutata come: molto fine, fine, abbastanza fine, comune, grossolana.
Per quanto riguarda l’intensità, l’odore può essere: intenso, abbastanza intenso, leggero, sottile, tenue.
Anche la persistenza olfattiva è definibile in 5 gradazioni: molto persistente, persistente, abbastanza persistente, poco persistente, sfuggente.
Vengono valutati altri aspetti, che non sono necessariamente presenti, secondo cui l’odore del vino può essere: franco, fruttato, aromatico, vinoso, ampio, etereo, fragrante.
Nel vino possono essere percepiti vari odori: di fiori, di frutta fresca, di frutta secca, erbaceo, di fieno, di sottobosco, speziato, di animali, di catrame, di lieVito, ecc. Nei vini bianchi prevalgono i sentori di fiori bianchi e di frutti gialli o verdi (specialmente mele e banane), mentre nei vini rossi prevalgono i sentori di fiori e frutti aventi colori più scuri (rosa, viola, fragola, lampone, ecc.). Alcuni profumi e aromi sono tipici in certi vini, per esempio il lampone nel Freisa, la rosa nel Brachetto, la viola mammola nel Chianti, fior di vite, d’arancia e di pesca nel Moscato d’Asti.
Nei vini più giovani prevalgono di norma gli odori di fiori e frutti (in particolare il sentore dell’uva è presente nel vino appena ottenuto ed è detto fruttato), mentre con l’invecchiamento il vino acquisisce odori più pesanti, spesso imparentati con quelli animali (tipo cuoio), oppure odori di processi di decomposizione (come di foglie marce, di sottobosco), oltre all’odore conferito dalla botte di legno (per esempio: vaniglia).
L’esame olfattivo viene prima effettuato direttamente, mediante più olfazioni: le prime consentono di percepire odori più intensi; annusando poi con forte aspirazione e agitando il vino nel bicchiere, vengono invece percepiti odori che sono più tenui, perché più lenti a fuoruscire dal vino.

Quando il vino è in bocca, viene nuovamente colto l’aspetto olfattivo e sono percepiti specialmente gli aromi presenti in minima quantità, poiché in questa situazione vanno più sostanze alla mucosa olfattiva; è questa l’olfazione indiretta o retronasale.


Che cosa significano odore primario, secondario, terziario e quaternario?


L’odore primario (o aroma primario) che si ritrova nel vino è quello proveniente dall’uva direttamente; si chiama fruttato se non è molto intenso, in quanto proveniente da uva a gusto neutro, mentre è detto aroma se è intenso, come per esempio nel caso del Moscato, del Brachetto, del Malvasia, ecc.

L’odore secondario (o di fermentazione) è quello conferito dalla fermentazione alcolica ed è anche detto vinosità; è dato sia dall’alcol e da altri prodotti originatisi durante la fermentazione alcolica sia da composti già presenti nel mosto.
L’odore terziario è il cosiddetto bouquet che si viene a formare durante l’affinamento, la maturazione e la conservazione del vino in botte; in questo ambiente leggermente ossidante _si formano i profumi tipici dei grandi vini austeri, nobili.

L’odore quaternario è pure detto bouquet, anche se viene conferito da sostanze differenti rispetto a quelle appena citate; infatti questo profumo si viene a formare nell’ambiente ridotto della bottiglia.


Che cos’è il mascheramento degli odori?


Si constata che alcuni odori presenti nel vino non sono percepiti affatto oppure vengono percepiti in modo differente. Posto che l’odore in questione sia presente in quantità superiore al valore-soglia, se esso non viene percepito la causa è da ricondurre alla presenza di altre sostanze che non ne consentono la percezione. Di fatto specialmente il tannino e l’alcol svolgono un’intensa azione coprente o di mascheramento. Ecco perché i vini rosati, scarichi di colore, sono molto profumati e così pure i vini leggeri: nel primo caso è la scarsità di tannino che consente un’intensa percezione degli odori, mentre nel secondo caso è la scarsa quantità di alcol che non svolge forte azione di mascheramento.

A titolo d’esempio, basta ricordare che l’odore dell’acetato di etile in acqua pura è percepito in dose di 25 mg/l; affinché sia percepito nel vino ne occorrono invece almeno 150 mg/l. Il fatto poi che alcuni odori nel vino vengano percepiti in modo differente rispetto al loro odore originario è facilmente constatabile ponendo un grammo di acido acetico in un litro di soIuzione di acqua e alcol: non sarà percepito l’odore di aceto, ma un gradevole odore che ricorda l’anice.


Quali sono i sapori fondamentali?


I sapori fondamentali sono quattro: dolce, acido, amaro, salato. Nel vino i più evidenti sono i primi due e a volte l’amaro, mentre il sapore salato si riscontra raramente: infatti il sapore salato è mascherato dall’alcol, dallo zucchero, dall’acido e dall’amaro. Tuttavia in molti vini giovani in fase di affinamento si percepisce questo sapore, seppure solo per un breve periodo, mentre vini che derivano da uve di vitigni vicini al mare possono presentare e conservare il sapore salato.

Il sapore viene percepito dalle papille gustative, disposte soprattutto sulla lingua. Il sapore dolce è prevalentemente riconosciuto dalle papille disposte sulla punta della lingua; per il riconoscimento del sapore amaro sono sensibili soprattutto le papille disposte alla base della lingua, mentre per la percezione del sapore acido sono maggiormente sensibili le papille disposte tra il centro e le parti laterali della lingua; infine il sapore salato è soprattutto percepito sui bordi laterali della lingua.
L’alcol, nei vini privi di zucchero, è il più importante composto che conferisce dolcezza; peraltro questa non è percepita, in quanto si ha un reciproco mascheramento tra alcol e polifenoli (responsabili del sapore amaro).

Nella parte centrale della lingua vi è una notevole sensibilità tattile, che consente di valutare adeguatamente la fluidità del vino e la presenza dei polifenoli, responsabili dell’astringenza.


Come viene valutato il sapore del vino?


Anche per il sapore vi sono delle scale di valore delle sensazioni relative a qualità, intensità, persistenza.

Per quanto riguarda la qualità si può ricorrere alle seguenti definizioni: molto fine, fine, abbastanza fine, comune, grossolano.
Dal punto di vista dell’intensità il sapore è valutabile come segue: molto intenso, intenso, abbastanza intenso, leggero, tenue.
Secondo la persistenza è valutabile invece come: molto persistente, persistente, abbastanza persistente, poco persistente, corto.
Naturalmente i grandi vini sono contraddistinti dai valori più elevati fra quelli esposti; per esempio, un Barolo che sia all’altezza della sua fama dovrà essere di qualità molto fine, con sapore molto intenso o intenso e con buona persistenza gustativa.
Il gusto del vino deve poi essere valutato sotto altri aspetti, quali la tipicità (che deve rispecchiare il vitigno e la zona di produzione), la franchezza e la struttura generale. Con quest’ultimo termine s’intende l’in. sieme di zuccheri, acidi, alcol, tannino.
Indi si valuta l’armonia del prodotto e il suo indice di morbidezza, che è dato dal rapporto fra le sostanze che conferiscono durezza (acidi, tannini, anidride carbonica) e quelle che conferiscono morbidezza (zuccheri, alcol, glicerina); questo valore è più alto per i vini dolci e più basso per i vini tannici e per i vini bianchi secchi (praticamente privi di zucchero).

Si valutano infine lo stato di maturità e lo stato di conservazione del vino.


Come viene classificato il vino in base alla quantità di zucchero?


Il vino è definito secco se non è percepibile il gusto dolce (benché possa contenere 1 +3 g/I di zucchero).

Abboccato è il vino in cui il sapore dolce è appena percepibile, mentre se lo si percepisce in modo evidente il vino è detto amabile.
Se lo zucchero è presente in percentuale superiore al 5% il vino è detto dolce, mentre è definito molto dolce se lo zucchero è superiore al 10%.
Questi termini valgono per i vini tranquilli, mentre per i vini spumanti vale la classificazione seguente: — extra-brut: se contiene meno di 6 g/I di zucchero;
— brut: se contiene meno di 15 g/I di zucchero;
— extra-dry: se contiene 12+ 20 g/I di zucchero;
— secco o asciutto: se contiene 17 + 35 g/l di zucchero; — semisecco: se contiene 33 + 50 g/l di zucchero; — dolce: se contiene più di 50 g/I di zucchero.

A volte si usano i termini pas dosé o nature quando la quantità di zucchero è prossima a zero grammi.


Che cos’è il corpo del vino?


L’insieme delle sostanze non volatili del vino è chiamato estratto e comunemente viene detto corpo. Tuttavia ci pare corretto aggiungere al corpo anche l’alcol, essendo generalmente noto che, a parità di tutti i componenti, un vino ricco di alcol (generoso) dà la sensazione di maggior corposità rispetto a un vino povero di alcol (leggero). Il corpo è costituito soprattutto da zuccheri, acidi, polifenoli, oltre che da colloidi e alcol. I vini rossi sono in genere più ricchi in corpo, mentre lo sono meno i vini bianchi (non dolci).

Per valutare il corpo del vino si usano i seguenti termini: magro, leggero di corpo, di corpo, pieno, pesante. A meno che non si tratti di una caratteristica tipica di un determinato vino, i termini magro e pesante significano che il vino non è molto valido in quanto a corpo: nel primo caso perché carente, nel secondo caso perché troppo corposo.


Che cos’è il retrogusto?


Il retrogusto è una sensazione gustativa che viene percepita quando il vino è già stato deglutito. Questa sensazione è differente da quella percepita quando il vino viene tenuto in bocca.

Molti vini sono caratterizzati da un retrogusto del tutto tipico (per esempio: Grignolino del Monferrato Casalese, Cellatica, Valtellina, Cacc’e mmitte di Lucera, Monica di Sardegna, Dolcetto d’Acqui, Verdicchio di Matelica).


A quale temperatura vanno serviti i vini?


Ogni tipo di vino esprime il meglio di se stesso se viene degustato alla temperatura più adatta.

Ecco i valori delle temperature consigliate:
spumante 8 °C
bianco secco 10 °C
bianco morbido 12 °C
rosato secco 12 °C
rasato morbido 14 °C
rosso poco tannico giovane 14 °C
rosso tannico giovane 16 °C
rosso invecchiato 18 °C
Queste temperature sono legate a fattori fisiologici; per esempio, se i vini rossi invecchiati e tannici fossero degustati a temperatura bassa, ne sarebbero evidenziate eccessivamente la durezza e l’astringenza dovute al tannino; viceversa il vino bianco, non essendo tannico, può essere degustato a bassa temperatura. In particolare la temperatura piuttosto alta consigliata per i vini rossi invecchiati permette di coglierne appieno il bouquet, mentre per i vini bianchi ne renderebbe troppo fugaci i profumi, che sono già tenui; la bassa temperatura consente di apprezzare appieno la freschezza e il fruttato di questi ultimi vini.

Ovviamente le temperature predette possono subire leggere variazioni (di +1 o -1 °C) a seconda sia del gusto personale sia della temperatura stagionale, per cui d’inverno si tende a preferire temperature leggermente più elevate e viceversa d’estate.

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Bibliografia
– I miei Vini (Guida pratica per conoscere i vini) – ed. De Agostini
– Imbottigliamento e conservazione del vino di G. Sicheri – ed. Hoepli
– Il vino: 100 domande e 100 risposte di G. Sicheri – ed. Hoepli

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