Sangue indiano nelle vene, il Canada come paese natale e una credibilità conquistata tra le fila della “Band”.
Quando decide di entrare in studio per registrare il “suo” disco, Robbie Robertson aveva masticato rock per quasi tre decenni. Nel 1965 aveva accompagnato Dylan in uno dei tour più discusso della storia. Da allora, la sua vicenda era rimasta strettamente legata a quella dell’uomo di Duluth: insieme alla Band aveva registrato album di capitale importanza come “Music from Big Pink” e preso parte alle memorabili session di “The Basement Tapes”. Nella Band era punto di riferimento, ma la presenza di vocalist d’eccezione come Levon Helm, Richard Manuel e Rick Danko gli aveva spesso impedito di interpretrare lui stesso le canzoni che scriveva. Dal giorno dell’addio della Band, documentato da un capolavoro musical-cinematografico intitolato “The Last Waltz” (1976), Robertson ha atteso undici anni prima di pubblicare il suo primo, vero lavoro solista. “Non avevo nessuna intenzione di incidere un nuovo disco della Band”, disse all’indomani della pubblicazione del suo esordio “volevo un album che rispecchiasse il mio stato d’animo attuale”.
Un pugno di canzoni luminose come un flash sparati in piena notte sugli immensi spazi americani. Avventure in bianco e nero come film neorealisti, con un protagonista mezzosangue eternamente in bilico tra la spiritualità pellerossa e il furioso realismo del rock.
Grazie alla produzione di Daniel Lanois (canadese anche lui) e a una impressionante lista di ospiti (U2, Peter Gabriel, BoDeans, Maria McKee, Terry Bozzio, Manu Katchè, Neil Young), Robertson riuscì a mettere in scena una credibile e suggestiva rappresentazione del rock di fine anni Ottanta. “Fallen angel”, “Showdown at big sky”, “Somewhere down the crazy river”, “Sweet fire of love”, erano il filo steso sull’America per avvicinare il ritmo di New Orlens e le incotaminate distese del Canada. In quelle canzoni c’era il rumore della metropoli e il silenzio dei cimiteri indiani. Dove futuro fa rima con memoria.

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